Nacci
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pittore della sabbia
"poi ancora Antonio Nacci con i suoi <<gessi patinati>> i cui volumi, pur manifestando disaccordo tra contenuto espressivo e ricerca spaziale, esprime un dramma interiore particolarmente nelle figure <<verticalizzanti>>"
Giovanni Corrieri, Giornale di Sicilia, Palermo, 1962
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I rapiècages monocromatici che Antonio Nacci presenta trovano le loro ascendenze nel collage cubista, in quello dadaista e, per certi lati, nel polimaterismo dei futuristi. Precedente più nobile e influente, anche se rimasto alla base, è naturalmente il primo: è esso il traliccio su cui il pittore costituisce il suo orizzonte, un orizzonte assurdamente ravvicinato, come quello di Burri o anche di Dubuffet. Ma, se nella fenomenologia <<autre>> di Dubuffet la materia, dipinta o ottenuta col <<papier machè>>, è presente come intervento volontario, al contrario nelle opere di Nacci, così come quelle di Burri, il fatto materico è assunto centralmente, non come veicolo passivo dell’espressione, ma come elemento di per sé espressivo, e in sé vivente.
Questi <<sacchi>> che Nacci impagina, lacera e ricuce sui telai dei suoi quadri non sono però una <<sfida>>, come lo erano invece quelle di Burri nel ‘50, anche perché ben mutata è l’odierna stagione culturale da quella di allora: essi sono, piuttosto, il simbolo di una eleganza scabra e resistente che si evidenzia come figura morale, come sublimazione e quasi come evento metafisico, entro il fisico e il terrestre.
E indicano come anche la sua acuta dilezione per la manualità sia in lui congenere al senso di un possedere e di un fare primordiali, con il suo innesto sulla realtà quotidiana che è l’involucro dei sensi, placenta ruvida e convulsa di una gestione laboriosa entro il grembo del tempo.
C’è ancora da dire che l’impiego delle toppe di tela di juta, di natura identica alla superficie del canovaccio sul quale sono applicate, possono far pensare a un sistema ermetico. Paiono sconvolgere un originario progetto di collage: una <<restitutio ad integrum>> in chiave astratta, di elementi del mondo esterno. Ciònondimeno è proprio il collage a conferire all’opera di Nacci speciali forze che, oltre a far palpitare la superficie rendono più evocativo e significante il medium connettivo impiegato, ne stimolano la ricettività e ne accrescono la violenza dell’intervento.
Anche il fatto che l’artista voglia compendiare, in queste sue evocazioni d’ascendenza cubista e neoplastica, altre esperienze e altri accadimenti, e si proponga poi di offrirne un risultato decisamente esistenziale, è una testimonianza dell’identificazione di quelle esperienze e di quelli accadimenti nella cultura contingente che è il suo quotidiano alimento.
Albano Rossi, presentazione mostra personale, Circolo di Cultura, Sciacca, 1963
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"Nacci espone invece dei collages (Occasioni n. 47, 48, 49, 50, 51). Cinque collages tutti simili composti con brandelli di sacco, colori stagliati. Questi incastri di colore e pezzi di stoffa sono una forma aperta, un campo di possibilità dove l’occhio si sbizzarrisce"
Giovanna Grassi,
Le Arti, Milano, 19 febbraio 1965
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"Qualcosa di buono hanno da dirci Sciamè e Nacci, ma il loro impegno si sfoca per la presenza di troppi ristagni"
Renato Giani,
lO Artisti siciliani a Roma, Giornale di Sicilia, il 3 Febbraio 1965:
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Dal drammatico divario tra l’urgenza dello stile e il concreto divenire della esistenza, cioè tra l’assoluto dell’arte e il relativo della vita, tra la certezza della prima e la precarietà della seconda, nasce la condizione problematica, e di crisi, in cui si trovano coinvolti i più avvertiti esponenti della nuova generazione artistica.
Dopo una stagione - quella dalla quale stiamo uscendo - che reagì contro gli allettamenti dello stile, contro la pretesa di assoluto della forma, contro il “tradimento”, contro la trasposizione e i vecchi trucchi dell’arte (pretendendo che questa fosse soltanto immediatezza, passione, presenza, vale a dire fedeltà totale al gesto, all’automatismo, alla fisicità della vita) la primaria necessità dell’artista nuovo è quella di reinserirsi in un autentico discorso di cultura che gli consenta quella chiarificazione che lo porti ad allargarsi ad una dimensione che comprenda la terra. Situazione, invero, tutt’altro che facile ed enormemente diversa da quella, comodissima, di chi si illudeva, fino a qualche anno addietro, di serrare in pugno l’universo bighellonando da un bar all’altro e di dominarlo tra una maldicenza e una tazza di caffè. Al giorno d’oggi il lavoro di ricerca (che ha dato origine a tanti equivoci, incomprensioni, ironie, tanto fatui, del resto, quanto prevedibili), e quello di formazione e di maturazione, vengono condotti non più mediante le acquisizioni mentali, ma attraverso l’asperità di una introspezione controllata entro la propria carne viva.
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Arte è sacrificio
Quanto tempo è oggi necessario a un pittore, o a un musicista, ovvero a un poeta, per giungere a dipingere, a comporre o a scrivere con l’autentico timbro della propria voce? Su questo nuovo schieramento avanzato milita da tempo, con responsabile fermezza, Antonio Nacci che alla galleria <<Il Punto>> di Sciacca, presenta un’antologica delle sue opere dal 1959 a oggi. Nacci è un pittore che, per quanto giovane, ha già alle sue spalle un duro itinerario di ricerche, d’impennate e di scarti che ha influito puntualmente sullo sviluppo della sua complessa natura. Se ci proponessimo di percorrerlo a ritroso, annotando tutte le varie tappe, vi rintracceremmo senz’altro il segno di una costante coerenza. Che è poi quella d’una emozione intrisa di succhi terreni, d’ipertesa sensitività e di puntigliosa riflessività, sempre diretta a oggettivarsi, a formularsi in una immagine definitiva, a trasferirsi in essenza pittorica.
Nacci si trova in un momento particolarmente impegnativo del suo lavoro, e i quadri esposto in questa personale offrono la possibilità di una esatta lettura: si distinguono, in un certo senso, dalle sue produzioni precedenti per un’accentuata solerzia nell’intensificare, nel condensare la carica espressiva partendo dai già esperiti elementi materici ma cercando di saggiarne più a fondo la resistenza, le differenti possibilità, la durata. Non il compiacimento del potere inerziale della materia, nell’alveo di un suo immobile destino, lo ha guidato nel suo più recente lavoro, ma una volontà più aperta, e insieme mediata, al fine di riscattare, per quanto ciò fosse effettivamente possibile, la relatività e la provvisorietà dell’esistenza. Fattori, questi, equivalenti essenzialmente a durata nel tempo - passato - memoria. Affinché l’urgenza del trasferimento - dell’assolutezza dello stile - potesse trovare un terreno meno provvisorio su cui installarsi. Ecco perché in queste opere il fòmite espressivo si è fatto più interiore e rattenuto: tutto vi si presenta più acutamente verificato e di un’accidentalità meno scoperta che nel passato, più ermetica, più profonda. Un tenace impegno stilistico la rinsalda tanto nello sforzo di trascendere la fisicità meramente esistenziale della materia (del frantume naturalistico distratto dalla sua sede attraverso il proposito di ricrearne la sostanza espressiva), quanto per una più responsabile rinuncia di ogni superficie sensitivizzata soltanto dal punto di vista quantitativo, imprimendo invece alla superficie stessa un moto incentrante entro i confini fiscali del quadro sì da favorire contrazioni e rattrappimenti là dove l’emozione si deve trasmutare in labbia formale.
Fenomenologia ordinata
La nuova posizione di Nacci viene così ad inserirsi solo parzialmente nella problematica dell’inerziale e tende piuttosto a contemperare e a consociare i vari elementi della topografia della materia e a ricomporre l’ordine dei fenomeni.Affidando in un primo tempo alla materia la sua impronta originaria, già intrinsecamente munita di struttura e di forma, il pittore viene a puntare il suo interesse sulla dialettica dell’inorganico nella misura in cui essa si disvela come ultima tesi e proposta, cioè approdo e ricomposizione di elementi spazio-temporali.
Una costante reale e subiettiva si ritrova oggi in Nacci, sia nella funzione che nell’articolazione della materia. L’inerziale non è più mera presenza, ma proiezione d’una memoria educata al ritmo e alla architettura dello spazio. A differenza di Burri - o, più ancora di Fautrier - per Nacci la materia ha cessato d’essere un dato primario per divenire un valore investito di una sua designazione.
Spazio è materia
Lo spazio, cioè, non è più qualcosa di diverso e separato dalla materia; è bensì una struttura del pensiero umano, ma si palesa nella materia traslata in dimensione umana, assurta al rango di “natura”. E la scelta delle materie è tutt’altro che casuale: sacchi di tela di juta, cenci logori, canovacci, brandelli di filondenti stracciati e poi ricuciti, pezzetti di filo, carta e colore sono recuperati dalla loro inerzia mortale, dal loro desolato abbandono, non attraverso un atto di cruda naturalità organica, ma in virtù di un sentimento più umano, di una trepida, ma leale, profferta di coesistenza e di simpatia.
Talvolta questi innesti materici fanno sbocco nel quadro, ne sommuovono la trama del fondo e vi determinano musicali contrappunti: un continuum di musica visiva pura, intensa e serrata in una sua organicità introversa, commista all’occasionalità delle materie affidate al flusso e riflusso del reale e la cui semanticità vale solo come documento della nostra vita di tutti i giorni. Questo credo sia il messaggio poetico, e morale, dell’opera di Nacci.
Albano Rossi,
catalogo mostra galleria El Harka, Palermo, 6-15 marzo 1965
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Antonio Nacci è un artista che ha tratto profitto da tutte le esperienze pittoriche succedutesi negli ultimi anni. Astrattismo, informalismo, arte materica gli hanno fornito spunti assai interessanti, sia con gli esempi offertici da un panorama di codesti settori nella pittura nazionale, sia per i riferimenti legati a più vaste ricerche operate in campo internazionale.
Al di là delle coincidenze espressive, si avverte però in lui una particolare inquietitudine che lo porta a lavorare la materia con graffiante insistenza, fino a tradurre in dolorosa emozione ciò che poteva nascere da un piacere formale.
Mario Monteverdi
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"Nacci è uno dei pochi pittori siciliani che si siano dedicati alla pittura materica, una pittura che si avvale di elementi diversi dal solito colore, nel suo caso il tessuto di sacco.
Un tempo erano sacchi da imballaggio con le loro stampigliature, oppure le etichette, i bolli di ceralacca, le scritture a mano, le macchie degli inchiostri. Il <<mezzo>> espressivo di Burri, il recupero della materia da scarto. Nacci aveva voluto aggiungere il mezzo tradizionale della pennellata di colore, e la composizione dei suoi collages, secondo un modulo non informale ma di cubismo sintetico. Ora la sua materia è più pulita e più umile, composta nel quadro secondo un gusto meno estetizzante ma più attento al linguaggio cromatico e spaziale. Il taglio orizzontale del quadro, una maggiore semplicità di elementi strutturali, inseriscono Nacci in un linguaggio, più controllato e attuale.
S. F.
Palermo, marzo 1965
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Frammenti di juta, sacchi colorati, fili di ferro, schegge di legno e un’immaginazione ben dosata sono gli ingredienti che il giovane pittore Antonio Nacci usa nei lavori che espone alla galleria <<El harka>>.
Gli esperimenti di costruzione plastica e di collage del giovane Nacci sono appunto questo: esperimenti. Però i risultati che ottiene sono in molti casi interessanti e quasi sempre improntati ad un buon gusto estetico.
Spazio, materia e struttura preoccupano evidentemente Nacci e lo spingono alla ricerca di una combinazione armonica fra gli elementi delle sue composizioni e l’espressione poetica che può essere inerente a ogni soggetto. Però, proprio qui sta il difetto e la limitazione dei lavori di Nacci: il partire dalla concezione prefabbricata che la materia sia capace, da sola, di generare poesie.
Questo è vero alcune volte, ma non sempre e allora, come succede alla maggior parte delle opere di Nacci, i risultati sono solamente decorativi e, tuttalpiù, piacevoli da vedersi.
Nacci, insomma, malgrado la sensibilità che è presente nei suoi lavori e malgrado il suo indiscutibile buon gusto, si mantiene a galla su una premessa molto discutibile.
L.R.G.
Giornale di Sicilia, Palermo, marzo 1965
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Ormai la cosiddetta pittura impegnata è come una valanga che travolge giovani e meno giovani. Antonio Nacci, non ultimo della serie, ha esposto alla galleria <<Il Punto>> i suoi <<collages>> (ma è improprio chiamarli così) che parlano della cruda realtà dei nostri giorni. Vietnam e angoscia esistenziale sono i cardini tra i quali, grosso modo, il Nacci fa ruotare la ruota dei suoi interessi pittorici, i quali sono così scopertamente polemici che quasi non lasciano margine ai classici canoni del dipinto. I quali sono anzi ampiamente rifiutati per una accettazione di espressione polimaterica che lascia perplesso l’osservatore comune. Simboli, significati reconditi e spunti parafilosofici si innestano nei quadri del Nacci che adopera in abbondanza una materia che fu già cara a Burri. L’innesto personale tenta di agganciare un dato di originalità che alla fine risulta ormai superata nel tempo. Ma rimane questa carica emotiva, che si può accogliere con relativa comprensione.
Giuseppe Servello,
Giornale di Sicilia, Palermo, febbraio 1967
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In Antonino Nacci, il concetto di forma ha perduto ogni significato, e si dilata nell’astratto dell’estro volatizzandosi in sintesi elastiche, logiche, ragionate. Potremmo dire del suo stato d’animo, come di un mutismo, ovvero la conversazione dell’io che va’ oltre la rete dell’inventiva comune, innalzantesi oltre i silenzi, oltre lo spazio. Momenti, che più che essere rappresentati descritti attraverso collisioni, evoluzioni, antitesi e metamorfosi. Egli ha rinunciato all’uso dei colori forti e violenti per raggiungere stati avanzati, che realizzano canori linguaggi, smorzantesi in opacizzate decolorazioni, in suggestive visioni astrali; il cui contenuto assume un sapore idilliaco senza porre condizione alcuna di sorta. Rinuncia ai valori formali, sentita, dal Nacci, come evasione dal mondo razionale, per sentirsi librare nella materia ora composta ora decomposta, in slanci non estranei al contenuto del pensiero, valorizzando il dualistico rapporto di massa dinamica e di colore.
S.f.
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"Quella di Nacci è una pittura che definiremmo di protesta, anche se questo vocabolo fino ad oggi è stato per lo più usato nella musica e nella letteratura, ma non certo nella pittura. Essa, a nostro avviso, rappresenta una naturale evoluzione della pittura cosiddetta sociale, ma da questa si differenzia nettamente per l’impostazione.
Superata la tendenza che in un certo senso lo riallacciava a Burri, Antonio Nacci ha affrontato la pittura di protesta con un suo modo tutto proprio e schietto, scevro da qualsiasi influenza di gruppo. È certo questo, per il giovane Albano Rossi nella sua presentazione in catalogo - i quadri esposti in questa personale si distinguono, in un certo senso, dalle sue produzioni precedenti. Ma, si badi bene, Nacci non è arrivato a questa sua espressione <<tout-à-coup>>; egli ha alle sue spalle una lunga serie di ricerche che hanno limato e affinato la sua arte.
Inconsueta è anche la materia di cui Nacci si serve per le sue composizioni; si tratta di sacchi di juta, brani di giornali che affrontano gli scottanti problemi dei nostri giorni (nazismo, Cina, Vietnam, ecc.), filo di ferro. Il tutto è ricucito o incollato sulla tela con una tecnica sua propria che conferisce all’insieme un aspetto gradevole e suggestivo"
G.P.
Sabato Sera, Agrigento, 11 febbraio 1967
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Il quadro di Nacci pur proponendosi quasi come <<paesaggio>> sviluppa un ciclo esistenziale in cui il campo oggettuale non può essere presente e tutto ricorre in una scelta informale che trova le sue basi in Fontana, Burri e per una certa tecnica materica in Tapies.
L’interatività di simboli - gesti in un grigiore opprimente, concettualmente indefiniti in un riproporsi costante nel tempo e nello spazio, è l’elemento primo, punto di partenza della storia quotidiana, monotona nei suoi accadimenti ripetibili all’infinito che conducono all’angoscia ossessiva dell’insoddisfazione.
Segue la ricerca di uno spazio libero, il desiderio della evasione che l’uomo si porta dentro da sempre e che gli fa pesare la gabbia d’oro che ha costruito. Ma il volo viene interrotto, bruscamente, aprendo la profondità del terrore che coglie nella caduta dell’io, preda paranoica di un inconscio misterioso.
L’avventura si sviluppa in una atmosfera arcana dove il simbolo sostituisce il segno e l’espressione elementare l’immagine in un costruire silenzi sofferti nell’allarme di una situazione instabile, che esclude ogni spazio per l’azione.
L’ambiguità nasce dall’impossibilità della fuga, anzi ogni tentativo termina in una macchina nera martoriata da tagli, simbolo della nevrosi.
La pittura consegue nella elaborata tecnica materica effetti preziosi, e in ultima analisi i lavori per il carattere informale tendono spesso a risolversi nell’effetto decorativo proposto dagli equilibri cromatici.
E.R.
L’Ora, Palermo, 26 aprile 1971
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"basterebbero queste <<invenzioni>> di Nacci, così limpide e ritmicamente compiute, a dissipare quella ricerca ad effetto, quello sperimentalismo prefabbricato che contamina tanta giovane pittura italiana. Il fatto è che Nacci, fedele ad un suo mondo, queste trame che costituiscono corpi nello spazio le realizza con il supporto della fantasia, improvvisando un numero che può essere anche infinito di variazioni.
Sulla materia egli si accanisce quel tanto che gli basta per articolare e per definire nuclei di segni che sono sempre ricorrenti nella sua pittura. Ricorrenti e puntuali; ma non tali da ingenerare monotonia o da riuscire assillanti, perché il percorso è sempre quello di un’invenzione sempre tesa.
Nuccio Galluzzo,
presentazione in catalogo mostra galleria La darsena, Milano, 2-18 marzo 1973
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"Si evidenzia immediatamente per una sua tecnica particolare con la quale realizza i suoi quadri: dipinge con la sabbia della sua Sicilia, finissima, che traduce in graffiti quanto mai interessanti. Ecco Nacci ha scoperto il valore eterno del graffito ed ogni sua opera ne fa fede. In essi graffiti dà libero sfogo alla sua fantasia che è filtrata da esperienze informali e astratte.
La scelta dei colori caldi, riposanti, il buon gusto degli accostamenti cromatici, la saggia ritmica delle sue graffiature ne fanno un pitture davvero originale ed interessante. Non lo si deve giudicare solo emotivamente, ma scavare nel fondo della sua ispirazione che lo porta ad essere considerato uno dei giovani più promettenti della nostra pittura.
Franco Mondello,
Biellese, Biella, 8 aprile 1975
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"La necessità di dire qualcosa di nuovo ha portato Nacci ad una paziente geografia scenica che oltre ad un momento gestuale vuole essere un’analisi del rapporto intercorrente fra l’autore e l’opera oggetto. La sua preoccupazione nei quadri materici e monocromi non è soltanto di natura visiva ma simbolica di un discorso instaurato fra creatività razionale e materia.
Piera Rosso,
Eco di Biella, Biella, 10 aprile 1975
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"sotto i suoi occhi interminabili distese di rena, dentro l’esigenza di darsi un linguaggio: grandi tele o lunghe fasce coperte da un fondo di sabbia sottile, come a rimuovere la spiaggia per trasferircela, visibili, e, sui muri di una galleria, forse spiazzata, come spiazzato appare Nacci, volto a se stesso, innamorato di superfici irregolari ma controllabili, reduce da un’esperienza espressionistico-materica che
lo avvicinava a Burri.
Sulle sottili <<lastre>> di sabbia un’incessante <<segnare>> ideogrammatico, i segni di un esoterismo personale eppure riscontrabile nel geroglifico, nell’eloquenza narrativa della <<decorazione>> sud-americana, nella tradizione magico-alchemica. Nacci parla, pertinentemente, di recupero di valori mistici e, appunto, magici, di iterazioni; lunghi racconti di segni da decodificare con l’uso, esclusivo, dell’emozione, lontane e riluttanti allo scientismo e alla pretestuosità"
Toti Garaffa,
Il Diario, Palermo, 23 maggio 1979
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"Nelle produzioni di Nacci la scelta delle materie è tutt’altro che causale: sacchi di tela juta, cenci logori, canovacci, brandelli stracciati e poi ricuciti (incollati, su cui s’innestano e incastonano brani di cronaca giornalistica o da rotocalco), pezzetti di filo, carta e colore recuperati dalla loro inerzia mortale, dal loro desolato abbandono>>. Sciacchitano, Nacci costituì allora ed è, tuttora, uno dei più sottili esponenti d’avanguardia attivi nelle nostre zone.
Oggi Nacci continua a sollevare dalla morte materie e figure, impiegando mezzi e tecniche diversi dal passato e sapientemente rinnovati. Grandi tele o lunghe strisce coperte di sabbia su cui Nacci <<incide>> discorsi allusivi ed emblematici che stanno tra la cronaca e l’ultra storico, il comunicativo e l’ermetico, l’esotico e l’esoterico. Il segno in questi lavori è <<lavorato>> sino alla minuta grafia misteriosamente immaginifica; ridotto sino all’astrazione, è tuttavia anche ripetuto fino alla <<trasmissione>> del mistero stesso: ed è, in tal modo, letteralmente “geroglifico”, cioè <<sacro linguaggio>> simbolica espressione - nella transitoria quotidianità della tela e della sabbia - di ciò che è <<altro>> dal giornaliero trapassare delle cose e degli eventi, e dai loro strumenti usurati. E non è, poi, da trascurare il fatto che Nacci si diverte, giocando tra il fumetto del relativo e l’arazzo dell’assoluto. La simbolizzazione, così, ha tutta la sua molteplice valenza.
Giuseppe La Monica,
L’Ora, Palermo, 25 maggio 1979
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Applicando su tele, strisce e consimili una pasta terrosa, Antonio Nacci la incide con simboli arcaici e segni geometrici di una minuta ma ferma calligrafia. E l’effetto che ne ottiene è quello di una realtà antichissima, dove ciascuno può leggere o tentare di decifrare una remota storia dell’uomo
Giuseppe Servello,
Giornale di Sicilia, Palermo, 29 maggio 1979
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"il supporto sintetico di Nacci, superficie su cui sabbie policrome si espandono come disseccati sedimenti e si lasciano ferire e graffiare"
Anna Daddi,
Giornale di Sicilia, Palermo, 16 novembre 1988
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Le manifestazioni più significative della cultura artistica contemporanea prendono corpo da improvvise modificazioni, strappi che talvolta sembrano contraddire ogni impostazione continuista, storicista.
I segmenti, le lacerazioni, tuttavia, non tardano a ricomporsi. La sensibilità dell’Artista rivela, anticipando con sorpresa colti processi di razionalizzazione, il senso stesso del nuovo tempo. Le certezze, le grandi certezze degli anni dell’utopia, dell’ideologia che hanno esercitato sull’Artista una intensa attrazione vissuta con trasporto passionale, mai con compiacimento retorico.
"La scelta, la definitiva risoluzione che apre a nuovi linguaggi per Nino Nacci viene già nei primi anni sessanta. L’Artista presente in quegli anni a biella in una area ricca di fermenti culturali che risente fortemente degli influssi dei movimenti artistici d’avanguardia europei ed americani avverte, assimilandole, talvolta precorrendole, queste significative esperienze.
Gli effetti sulla sua arte sono immediati: l’oggetto artistico viene frantumato, disintegrato con voluta dissacrazione, con violenza. L’arte è sempre più sperimentazione, ricerca. Il mezzo espressivo muta, l’Artista rincorre supporti nuovi, forse deliberatamente modesti, completamente innovativi: fango, sacchi, plastiche. La ristretta bidimensionalità della tela è forzata, lacerata. Gli interventi creativi di Nacci trovano nuove possibilità, altre motivazioni"
"Se negli anni ‘50-’60 il clima artistico-culturale che vedeva protagonisti Robert Rauschenberg, Alberto Burri ed altri permette a Nacci di avere significativi riscontri e stimolanti verifiche, con le sabbie (primi anni ‘70) l’Artista, prima accentua la componente segnica e, nel successivo evolversi della sua ricerca, una insospettata vivacità cromatica.
Il rapporto materia/segno/colore avvince Nino Nacci, lo trascina nel racconto, in immagini fiabesche. L’esperienza tecnica (notevole) maturata in anni di sperimentazione polimaterica acquista per l’Artista una dimensione più sommessa, il fatto evocativo prevale.
La sua opera appare negli anni ‘70-’80 pervasa da atmosfere fiabesche, alchemiche dove traspare il forte fascino dell’arte primitiva egizia, di cui Nacci è un attento conoscitore con i suoi misteri, con i suoi quesiti senza risposte"
Il racconto è, ormai, più sereno, le conflittualità degli anni delle speranze deluse lasciano il posto ad esperienze più complete, più mature; la rabbia ideologica cede il posto ad una ricerca più sottile: psicologica, ricca di simboli, di vicende, dove, da ritrovate attenzioni verso una natura quasi fiabesca si intravede l’esigenza, forse inconscia, di una dimensione umana cosciente della propria casuale e felice marginalità.
Francesco Lo Bue,
presentazione mostra galleria Nouveau Palermo, novembre-dicembre 1988
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Dall’elaborazione di assemblaggi alternativi all’impiego di materiali poveri e isolati, l’operazione artistica di Nino Nacci, esponente della <<vecchia guardia>> palermitana, si pone ancora oggi al di fuori delle tecniche tradizionali della pittura. L’impulso origina il gesto pittorico, si traduce in spatolate larghe, uniformi e attente, in graffi veloci e misurati; l’impasto gioca sulla gamma cromatica delle sabbie, la stesura, pur se veloce, è calibrata e non lascia trasparire l’immediatezza dell’esecuzione. Lo schema compositivo, disposto in sequenze, riduce all’essenziale il procedimento narrativo, scritture e segni si susseguono in serie ordinate, figure zoomorfe e umane, frecce indicatorie, tracciati capricciosi si allineano ritmicamente acquistando il sapore e il colore di un gioco ai margini della realtà.
Nacci aspira ad un linguaggio puro e primitivo, regredisce verso un mondo di segni semplificati e simbologie, infatti, li coniuga a moduli espressivi di altre culture, suggerimenti e influenze di immagini di lontane civiltà.
L’impasto diviene materia reale, nella sua porosità e nella fissità della superficie assorbe e filtra i colori e fecondandoli da luogo all’immagine. Figurazioni e simboli astratti, ora rituali e danze sacre, ora scarabocchi, si ripetono, mutando e si dispiegano in sequenze, investiti da poteri magici, da capacità evocative.
Anna Daddi,
Il Giornale di Sciacca, Sciacca, gennaio 1989
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Le forme Di Antonino Nacci si fissano in uno spazio primitivo aperto: anche quando appaiono come imprigionate entro i margini, o gli argini, determinati dai rettangoli, dai quadrati o dalle strisce in cui s’incastonano. La determinazione segnica diventa cifra originaria di comunicazione, mezzo di uscire dall’inwardness individuale e collocarsi in una riscoperta dimensione oggettuale sfiorata dalla prima luce della creazione. Al di là dello schematismo geometrico (sezione o piano ideale che siano), Nacci opera una regressione alla forma pura scavata nei suoi valori concettuali, recuperata come altro da noi. Una forma che viene ad assumere rilevanza autonoma e sollecita nuovi criteri di sensibilità e di esperienza.
Allo spazialismo gestuale e pragmatico di Fontana, Antonino Nacci antepone un concetto platonico del fatto estetico, un universo di segni - idee svincolati da rapporti con la realtà effettuale: veri paradigmi mentali non toccati dalla storia, vergini da contaminazioni temporali.
Da qui l’arcaismo d’una pittura ricava da immagini preesistenti all’inconscio, affondata in una età dell’oro barbara e innocente, il cui significato turba e disorienta come i segni rupestri graffiti nelle grotte paleolitiche di Altamira. Oltre c’è solo la brutalità splendida e inconsapevole della materia, sentita non già nei termini delle possibilità auto creative di un Fautrier, ma nell’anonimità cromatica di un Klein.
Per cui Nacci raggiunge effettivamente una chiave linguistica che, impadronendosi di questo contenutismo primordiale, è pervenuto a un proprio equilibrio mediante il ricorso a rapporti di valori ritmici e proporzionali nei quali i segni ideogrammatici - ora, non di rado commisti a quelli della segnaletica stradale - si sposano al colore fermo e cotto dei nostri primitivi, con rude preziosità minoica.
La pittura museale dei primitivi, soffusa da una patina incrostata di polvere arcana, era la più adatta a offrire la tessitura stilistica a un discorso che affonda in sottosuoli atavici e per il quale l’ermetismo è condizione di poeticità. Lo si riscontra nella calibrata timbratura dei suoi colori, nello sfioramento a stento percettibile della luce che trascorre dentro lo spazio e nell’ordine quasi musivo di una trama coloristica che al compiacimento del suo riflesso preferisce una sintassi più ferma e chiusa in principi architettonici.Lo si avverte anche nella materia del suo colore: una materia da muro, asciutta e ruvida giusto un affresco, che trattiene con la sua aridità la libertà della mano e la costringe a una più meditata espressione, senza privarla della sua originaria pregnanza.
Un’operazione che non si manifesta a freddo, ma con la discrezione di una forza ha preso coscienza di sé e tende, nel mondo delle immagini, il valore più intimo dell’esistenza e del mistero delle forme appena avvertito o solo intuite dalla coscienza dell’uomo e lo traduce in una trattenuta emotività, lo lascia crescere nel suo trepidare dentro l’animo finché, tra pensieri e invenzioni rapide commozioni e pacate obbedienze, diventa un moderno linguaggio di poesia.
I bruni, i rosa-antico, i bianchi calcinati, i rossi, i griggi e i colori terrosi traducono potenzialità germinali bloccate in un’immobilità archeologica. Spetta all’osservatore spezzarne la crosta argillosa e liberare gli stimoli racchiusi dentro la stessa monumentalità dell’atto generativo. Saranno stimoli sensoriali affidati all’immediatezza brutale della percezione, nei confronti dei quali occorre porsi con una disponibilità che potrebbe chiamarsi pre-storica (non erano forse gli uomini della preistoria estremamente disponibili alla forza di suggestione del ritmo?).
Ma come conciliare la cultura, di cui queste opere di Antonino Nacci sono pregne, col candore che deve presiedere all’atto percettivo del riguardante? La cultura figurale resta, allora, un fatto che interessa soltanto la genesi del linguaggio dell’artista e che il critico è portato a dissezionare per vizio di mestiere. Il risultato, per contro, non è frazionabile dialetticamente. L’analisi è infatti uno strumento operativo del giudizio. E i dipinti di Nacci non chiedono giudizi, bensì intendono sollecitare suggestioni di natura sensitiva.
Non è forse questa la strada più diretta verso l’autentica disponibilità al meccanismo visionario della fantasia?
A questo punto va detto che ora, a chi conosca per la prima volta Antonio Nacci solo attraverso i suoi fogli che vedono la luce in questa occasione, potrebbe sembrare che l’incisione sia per lui l’espressione piena e completa, anzi unica, della sua personalità tanto questo mezzo tecnico appare totalmente coessenziale al suo essere artista. Invece la sua ricerca incisoria è avvenuta successivamente a quella di pittore, ma le sue esperienze si sono intrecciate e compenetrate al punto di identificarsi.
In realtà, l’incisione non è per lui che il processo di recupero di un disegno attraverso e oltre la materia della pittura. Infatti nel momento stesso in cui si costituisce in immagine, la materia si fa spazio, svela un’intera struttura, una completa ragione formale, un disegno. Che poi il disegno non sia soltanto delineazione, tratto, contorno, significa che la definizione, nel caso di Nacci, è disegno all’ennesima potenza.
La ricerca d’immagine di Nacci è una ricerca che si spinge al di là dell’inevitabile impurità, mescolanza, ambiguità della materia; e non altrimenti può rivelarsi che in una condizione dell’esistenza selezionata, eletta, postuma della materia stessa.
Nell'incisione, e specialmente nell’acquaforte a colori così com’è stata qui adottata da Antonio Nacci, la materia non è più neppure un mezzo: è piuttosto uno stadio necessario ma superato, una condizione previa: sussiste infatti allo stadio d’intenzione, ma l’intenzione appena intuibile e tuttavia addirittura ponderabile.
Ma in questo carattere di accenno e d’incontestabilità, che la materia porta comunque in sé e che qui viene sottilmente sussurrato ed espresso, si precisa, in termini non già metafisici ma di potenziale esistenza, il carattere di “eternità” o di assoluto valore.
E la tecnica stessa, intesa come “cosa naturale”, diventa metodo. Così l’incisione cessa di essere una tecnica seconda, derivata dalla pittura, per diventare una tecnica primaria e perfino preliminare, emergente. È propriamente il processo che, consumando e purificando la materia, compie la selezione dei valori, deduce le qualità delle relazioni di quiddità, e finalmente conduce a un disegno che non è più l’atto iniziale o preliminare, ma il punto d’arrivo, il traguardo della pittura. Ecco, trasposto in parole, ciò che Antonio Nacci m’ha detto con queste lastre metalliche morse dall’acido.
Albano Rossi,
presentazione opera grafica in cartella. Rai regione giornale radio della Sicilia 22 07. 1989
Abstract
The discovery of Minoan civilisation has not produced the same impact in Italy as elsewhere. This is due to many factors, including the existence of other ancient cultures (above all Greek and Roman, but also Etruscan, Celtic, Sicanian, etc.) which could be incorporated in processes of use and appropriation of the past. Nonetheless, Minoan culture has at times been used (among others by non-specialists) in discourses regarding the existence of a Mediterranean identity, as in the publications by Mosso, Cipriani, and Pincherle. Minoan Crete is also present, albeit to a lesser extent, in the works of Italian writers (Cecchi, Bacchelli, Brandi, Montale, De Carlo) and painters (Campigli, Novelli, Nacci), in two contrasting ways: because of its links to classical mythology or as a completely foreign civilisation, which can be used in connection with themes such as pacifism, feminism, etc.
...In the field of the visual arts the fundamental problem is to distinguish between formal coincidence and true derivation (cf. BLAKOLMER, Chapter 14). Another issue concerns the iconographic sources to which Italian painters had access. These consisted mainly of art encyclopaedias, often by foreign authors, as Italy (unlike, e.g., Germany) did not have a tradition of making casts, the only exception being the Casts Museum in Rome. In this context, a singular example of how Minoan themes and iconographies could circulate in unpredictable ways is provided by an object preserved at the Castello Chiaramonte in Siculiana, Sicily. This is a fake, allegedly acquired from Turkey (but it could also be from Crete) in the first decade of the 20th century: a bronze conical vessel that closely imitates the shape and the zone divisions of the well-known ‘Boxers’ rhyton’ from Agia Triada, but depicts themes of Cypriot origin. It is not only the rapidity with which the forgers received news of the new Cretan discoveries that is striking, but also the unpredictable ways in which Minoan themes could reach a remote location of southern Italy.
At any rate, the presence of the Aegean world in Italian figurative art should be examined in the wider context of the interest in primitivism. At the end of the 19th century interest had already moved from the antique as classical art to the antique as primordial or even anti-classical, especially in the youngest generation of artists (MALTESE 1956: 11-44;PIROVANO 1991-4: 21; cf. BLAKOLMER, Chapter 14). This use of non-classical civilisations arose from the perception that classical symbols were no longer adequate (P. Courthion, cited in BERNARDINI and CRISPOLTI 1989: 14). In this new approach, however, ‘primitivism’ indiscriminately included Palaeolithic, African, and Papuasian art as well as 13th-century Italian painting. Aegean art, in this wide panorama, does not assume a proper physiognomy, remains secondary in comparison to Egyptian, Etruscan, and African art, and is confused either with a general ‘Mediterranean’ art or with Greek Archaic art. This is demonstrated by two passages of A. Soffici and G. de Chirico in articles published in the periodical Valori Plastici: the first uses a small Cycladic idol as a confirmation of the table-structure of Daedalic art (Valori Plastici, III, 1921: 111); the second, who was born in Volos but never went to Crete, misunderstands an archaic Attic ‘eye-cup’ as made by ‘the very ancient Cretans’ (Valori Plastici, I, 1919: 10; see also MALTESE 1956: 39). For all these reasons, one cannot ascertain a Minoan influence on the rosettes of the dress worn by a female figure in a 1914 picture of G. Chini.
When explicitly alluded to, Minoan art can be present either as a stylistic model inspired by archaeological discoveries or as the subject of work substantially linked to mythology (Ariadne, Theseus, the Minotaur). The first case is visible in some works by M. Campigli (1895-1971), whose female figures betray a Cretan inspiration in the schematic structures of their flounced skirts or in their profiles, which recall the Knossian fresco known as ‘La Parisienne’; at the same time a kind of appropriation can be detected, in so far as the schematisation serves to translate ancestral prototypes: the large skirts of the artist’s nannies in his childhood are confused with the Minoan ones, so that personal memory recalls that ‘in other immemorial senses, of the Cretan and Etruscan’ (CARRIERI 1945: 24). The second case is illustrated by two recent painters, G. Atanasio (b. 1956) (‘Cnosso’, ‘Teseo che ritorna’, ‘Mediterraneo’, ‘Minosse’) and P. Martino (b. 1948) (‘Labirinto’, ‘La porta di Micene’).
After World War II, Ventris’s decipherment of Linear B seems to have exerted a great influence not only in the field of history, but also in that of artistic research on the connection between art and writing (‘visual poetry’, ‘skripturale Malerei’: see PIROVANO 1991- 4: 118 -34): a topic which enjoyed great favour all over Europe in the 1960s and the 1970s. In Italy, Linear B enters the graphic experimentations of painters such as G. Novelli (1925-68) after his 1962 journey to Greece (Fig. 15.5). His search for the innate language and the original form of writing can be understood in the context of the general interest in the origin of writing prevalent in Europe at that time, but also in some way represents an extension of the primitivism of the 1930s. Likewise, Linear A, Cretan hieroglyphics and Linear B, mixed with other scripts, featured in the art of A. Nacci (1939 - 89; cf. ROSSI 1989), a painter born in Sciacca, influenced by Burri and Fontana, whose work in mixed materials deserves greater appreciation. In his creations, however, the ex tempore nature of the graphic sign is more evident than its historical link with Crete....
P. Militello, V. La Rosa,
Minoan Crete and XX Century Italian culture, in N. Somigliano, Y. Hamilakis eds., Minoan Crete: The first European Civilisation?, Convegno Venezia, novembre 2005;
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Il risveglio degli anni sessanta
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...Cosi, accanto alle prime prove astratte di artisti che poi troveranno una loro strada diversa - come Nicolò D'Alessandro, Guido Colli, Ciro Li Vigni, Michele Cutaia, Lino Tardia - si scoprono casi come quello, apprezzato ma non ancora compiutamente conosciuto, di Pupino Samonà, straordinario pittore minimale, che potrebbe avvicinarsi, per date e per temi, agli "schermi" di Francesco Lo Savio, o - non a quelle altezze - come quello di Antonino Nacci, il cui uso razionale della matericità possiede caratteristiche di originalità interessanti....
Marco Meneguzzo,
presentazione in catalogo mostra "Astrazione Siciliana 1945/1968" , Agrigento, Fabbriche Chiaramontane, 28 marzo - 18 luglio 2010.
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L'estetica del Frammento in Antonino Nacci
"Costruisco combinazioni di linee e colori su una superficie piatta, per esprimere una bellezza generale con una somma coscienza". Così il maestro dell'astrazione Piet Mondrian (1872-1944) descrive la finalità della sua rigorosa pittura, raggiungendo una compiuta sintesi tra spazio, luce e colore. Una ricerca che lo conduce, attraverso significati simbolici, verso l'apparente semplificazione comunicativa.
Come sappiamo, nell'ambito dell'Arte informale, che intende una pittura fondamentalmente astratta, quell'esperienza pittorica che si realizza in una specie di scrittura inventata, viene definita segnica, tendono a costruire nuovi alfabeti visivi, in cui è evidente la componente calligrafica.
Molte volte, la pittura segnica coincide con la "pittura di gesto", in quanto immediata trascrizione di impulsi gestuali in segni (George Mathieu 1921), Hans Hartung (1904-1989); altre volte è invece esito di un'operazione meno istintiva ed automatica ma lucidamente controllata. Ed è il caso di Antonino Nacci.
Su questi assunti accennati, il suo rifiuto della forma identificabile lo colloca nel territorio della "pittura segnica", dove la forma, non del tutto assente, tende a trasformarsi soprattutto in "segno", ed è riconoscibile formalmente come elemento grafico, ma non nel suo contenuto. la creazione di un nuovo alfabeto, di uina scrittura inventata, di una nuova arte che rifiuta il valore di ogni precedente conoscenza, da vita alla "negazione del mondo", ad una "iconografia del No", come ben teorizza Giulio Carlo Argan.
E' su questo tessuto formativo che prende sempre più spessore la sua identità artistica. E' da questa molteplicità di esperienze che Antonino Nacci raggiunge la propria e inconfondibile identità in una produzione artistica, razionale, colta, che prende soprattutto le mosse dalla conoscenza della geometria piana.
L'apocalisse dei segni e dei segnali rende la nostra vita spesso impraticabile, nel senso che i linguaggi visivi sono carichi di elementi comunicativi decisamente eccedenti. Riflettevo su queste cose osservando le opere del maestro Nacci, durante le fasi di lettura e di studio, preparatori a questa nota e nel contempo sull'intasamento oggettivo della "comunicazione umana" che si è sempre più esasperata, inflazionata.
Nella realtà contemporanea della civiltà globale si è ingigantito il segnale comunicativo in una sovrapposizione eccessiva di segni, di idee, di problemi, di soluzioni e di costante e ininterrotta ricerca.. Non c'è più spazio per il silenzio, per la riflessione e la concentrazione. Nacci nei suoi inventati ideogrammi e nelle sue scritture in tale ottica, ci conduce al valore fondante del silenzio.
Mi sono anche chiesto se affidandosi a pochi segni esemplificati non ci si possa riappropriare del senso della chiarezza comunicativa nella sua essenzialità e che ciò possa essere una possibile soluzione.
Una telefonata mi ha ricordato, guardando il tastierino del cellulare e riportandomi alla realtà, che nei linguaggi moderni ideogrammatici ciò avviene normalmente. L'artista monrealese ne faceva uno strumento usuale.
Credo che la semplificazione significa identificata da Antonino Nacci, affrontata e sviluppata nel corso della intensa vicenda artistica, raggiunga l'assetto più alto della sua visione compositiva.
L'intero lavoro compiuto nel corso della sua lunga ricerca diviene anche metafora umana di desideri irrisolti, di sogni non raggiunti, la motivazione profonda del suo fare arte. L'universo di Nacci è debordante di simboli inventati che, intrecciandosi in mutue relazioni, determinano un tessuto di elementi scritturali, alfabetici che si influenzano tra loro. Le sue composizioni, dal meticoloso assetto modulare e iterativo, diventano un compendio di tracce incisive e di segnali i cui elementi si trasformano in mappature, contengono misteriosi linguaggi appartenuti al sistema dei segni della comunicazione umana, come se fossero resoconti di linguaggi ormai perduti. Il carattere essenziale, semplificativamente povero di una scrittura, sollecita una specie di resoconto narrativo. Nacci ha reinterpretato, nel processo ideogrammtico della scrittura, inventando rudimentali forme di "alfabeti inesistenti" e, nei continui rimandi al passato, i segni, i simboli, le immagini, i colori e gli spazi delle composizioni che si pongono quali argomenti sostanziali, nel rapporto dialettico tra scrittura e falsificazione della scrittura, memoria iconica e rappresentazione. Siamo di fronte ad un'imagerie di disposizione magicototemica, in una specie di indagine fantastica, alla ricerca di archetipi, a volte figurali (animali, insetti e costruzioni fantastiche), come nelle emblematiche opere del 1985 e del 1987 e a volte con motivi segnici (scritture inventate) anch'essi di quegli anni. Emerge un senso di diffusa sacralità che offre la sensazione di trovarsi davanti ad uno spazio, inestricabile, inaccessibile, definito da recinti e confini.
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Le esperienze figurative scolastiche
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Esistono alcune testimonianze del periodo scolastico. Allievo modello e molto dotato, Nacci esprime nel periodo formativo la sua curiosità muovendosi tra la scultura, lo sbalzo e l'incisione calcografica, compie esperienze manipolative della ceramica e comincia ad utilizzare i materiali più poveri: sacchi di tela juta assemblata con fili di ferro, carta incollata, spaghi e oggetti riciclati. Rimangono del periodo formativo alcune opere (1962) in gesso dipinto e patinato. Sono figure femminili accennate e forme libere nello spazio. Pannelli in bassorilievo, in terracotta. Tutto ciò, progressivamente, lo porta a riconoscere nella forma astratta e, via via, sempre più geometrizzante e modulare, il territorio naturale che determinerà la sua completa maturazione del periodo. Secondo la testimonianza di Enza, la sua compagna di vita, sono molte le sculture sparse tra i collezionisti nel territorio tra Monreale e Sciacca, soprattutto quelle astratte. Sarebbe interessante riunirle per analizzare e rileggerne l'esegesi complessiva ed esauriente.
Quasi subito rinuncia definitivamente al concetto tradizionale dell'arte come imitazione della natura e si rivolge verso una concezione artistica sostanzialmente anicoconica. e antinarrativa affidata nel tempo con sempre più convinzione a motivi geometri i. a segni e simboli calligrafici. Del resto. 'condurre 1'arte all'astrazione - secondo Magritte - significa metterla in grado di esulare sia dall'imitazione della natura sia da un indirizzo pratico e funzionale". Alcuni lavori di questo periodo scolastico esprimono una vocazione all' astrattismo declinata nelle forme conchiuse di Piet Mondrian e nel calligrafismo segnico di Franz Kline (1910-1962), dalla "spontaneità studiata".
Gli interessi formativi e le influenze gestuali e materiche
Nell'ambito dell' Informale, due correnti principali interessano il nostro pittore: l' informale gestuale e l'informale materico. A questo interesse si aggiunge contemporaneamente la pittura segnica, fatta di motivi e segni che si richiamano a caratteri di scritture inventate, e la pittura materica, eseguita con particolari impasti o accostamenti di materiali non convenzionali. Respira, con lucidità, assorbendolo, il clima del momento. Quello degli anni cinquanta. Alla rigorosa purezza del neoplasticismo di Mondrian, aggiunge la tendenza ad un certo "geometrismo" di Roberto Crippa (1921-1972), nell' organizzare spazi e definizioni in un ruolo disegnativo meno organico e più casuale. Il sistema organizzativo del piano dell' opera ripercorre, se pur in altri contesti e situazioni, anche le ricerche di Remo Bianco (1922-1987), ricercatore nella Milano degli anni sessanta che, assieme a Lucio Fontana (1899-1968) e Piero Manzoni (1933-1963), si muove all'interno di uno spazio sostenuto da una "geometria ritmica". Le sue opere, in un ciclo degli anni sessanta, nascono da superfici che l'artista dipinge e in seguito ritaglia e ricompone come tessere di un mosaico specificando che: (. .. ) "si trattava di tagliare la tela dipinta in tanti quadratini e di conservare le parti che mi interessavano di più e ricomporre poi questa tela. Che diventava come una specie, così, di scacchiera, dove tutte queste forme risultavano spezzate." L'interesse di Antonino Nacci per questo maestro è palese, i suoi lavori del periodo lo confermano. Laddove inserisce all'interno di spazi conchiusi elementi segnici di carattere geometrico, di animali inventati, penso alle "Giostre" del 1966 di Corrado Cagli (1910-1976). Ma anche alle evoluzioni compositive e all'organizzazione delle astrazioni geometriche di Sophie Tauber (1889- 1943), compagna di Jean Arp, un'artista che, all'apparenza, sembrerebbe tanto distante dal Nostro.
Insomma Nacci esprime compiutamente il linguaggio del tempo. L'organizzazione formale della tela e dei suoi ritmi compositivi attinge, senza svelarlo, al principio del mosaico, all'organizzazione delle tessere che compongono l'immagine prescelta. Andare al di là del quadro è stata la cifra artistica dell' artista italo argentino Lucio Fontana "Bisogna esorcizzare l'illusione superficiale dell'immagine sulla tela, conquistare lo spazio oltre la materia", diceva l'artista nel suo Manifesto dello spazialismo. I suoi "concetti spaziali" e le sue "attese" sottolineano o meglio negano lo spazio rappresentato (finto) dalla pittura e dalla scultura e vengono rapportati con lo spazio al di fuori della tela o della scultura che è parte integrante dello spazio stesso. Il taglio non soltanto simbolico ma fisico (prodotto con la lama del coltello, quasi un simbolo fallico che attraversa la tela e genera un nuovo spazio) stabilisce una continuità tra la finzione virtuale della tela e lo spazio reale, aprendo altresì la strada, definitivamente, ad un nuovo territorio dell' arte.
Nacci per metabolizzare questo straordinario concetto, ha bisogno di realizzare fisicamente, attraverso la lacerazione delle sue tele, il principio enunciato dal grande rivoluzionario della pittura. Lo testimonia il suo intervento su una tela già dipinta, (pag. 22) quando la violenta con un rosso fuoco che annulla i segni ed interviene con tagli verticali e squarci. Esistono altre opere alle quali regala lo stesso trattamento, affascinato dal gesto che sanziona definitivamente nuovi sviluppi. Intuisce che l'indicibile, l'inesprimibile, il "nulla" che genera il tutto è il percorso verso nuovi destini della sua arte. La superficie della tela si libera dal peso delle forme evocate. Introietta, in queste ricerche, il fascino del tempo assoluto, del tempo indifferente senza tempo. Inoltre alcune relazioni associative mi pare di identificarle con il sistema segnico-spaziale di Antonio Sanfilippo, un'esperienza condotta sui "rapporti puri delle forme e sulla costruzione di uno spazio bidimensionale" o con i frammenti segnici di Carla Accardi di quegli anni.
Mentre analizzavo, per questa presentazione, le opere da esporre, composte soprattutto dalle sabbie e dalle terre, ma anche le esperienze precedenti dei primi anni sessanta, gli anni formativi, per associazione ho ritrovato tra le sue scelte più decise, l'interesse ai sacchi di Alberto Burri (1915-1995), maestro indiscusso dell'informale che indaga il "valore espressivo" della materia con le concrezioni e l'uso dei sacchi e l'attenzione a Jean Fautrier (1898-1964), precursore dell'informale, dove protagonista è sempre la qualità della materia e la materia stessa le cui tinte terrose ricordano quelle dei rosa, delle sfumature dei grigi, dei bruni, delle ocre, dei violetti delicatissimi di Nacci. Nei primi anni Sessanta, sollecitato dall' opera di Burri e dai materiali poveri, sviluppa la sua ricerca incentrata sui "Sacchi". Realizza composizioni con sacchi cuciti con fili di ferro,forma collages, con pezzi di stoffa, sacchi da imballaggio con le loro stampigliature, oppure aggiunge le etichette, bolli di ceralacca, scritture a mano, macchie degli inchiostri. Interesse che coltiverà per alcuni anni, accrescendo l'esperienza e le variazioni. I titoli sono rivelatori: serie di Pretesto, di Evocazione, di Occasione, di Momento, di Composizione, di Evento. Le sue opere non hanno bisogno di alcun titolo.
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Il sodalizio Nacci-Sciamè
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Nei primi anni sessanta il giovanissimo Antonino Nacci dalla natia Monreale si trasferisce a Sciacca, quale incaricato presso l'Istituto Statale d'Arte dove insegna Architettura e Arte applicata. Incontra altri giovani artisti. Stringe amicizie. La cittadina è prevalentemente a vocazione artigiana, rinomata per le ceramiche. Non esiste un'attività artistica di rilievo. Albano Rossi ripropone, alla galleria Il Punto, le mostre che organizza a Palermo nell omonima galleria. Antonino conosce Albano Rossi e partecipa a moltissime collettive. Nel 1962 Antonino Nacci e Vincenzo Sciamè che, come lui insegnava plastica all'Istituto d'Arte di Sciacca, mettono studio insieme in Corso Vittorio. Un sodalizio dove le due personalità molto diverse rinsaldano il legame di amicizia, si sostengono, dialogano, si integrano, affermano e, per certi versi anticipano, a Sciacca, il concetto di "lavoro di gruppo" nelle arti figurative, tendenza sviluppatasi negli anni successivi sino agli inizi degli anni ottanta. Nacci viene a conoscenza probabilmente del Gruppo Decalage, nato nel 1952 a Torino, formato da Felix De' Cavero, dal palermitano Attilio Aloisi e Nardo Girardi che riproponendo l'antico senso della "bottega", coltivano un'utopica "arte per tutti", affidata all'opera realizzata a sei mani dove ognuno dei pittori interviene, portandovi la propria sensibilità e le proprie suggestioni, una scelta che, tra l'altro, si con-trapponeva idealmente alle tecniche seriali, soprattutto nella grafica, che in questi anni in Europa si 'andavano diffondendo.
Nacci e Sciamè partecipano a molte collettive insieme. La piccola NSU Prince di Antonino servirà per portare i loro lavori a Palermo o in altri luoghi. Realizzano alcune opere a due mani. Un giorno però, all'improvviso, Nino, ricorda Sciamè, mi propose un progetto: "Che ne pensi di fare alcuni quadri insieme?". Mi sorprese. "Spiegati meglio", risposi. E lui a me: "C'è poco da spiegare: prendiamo una tela, la dividiamo a metà, ... tu dipingi in un lato e io nell'altro, insieme". Volevo sorridere e invece riflettei. Poi risposi: "Che senso ha? Tanto vale dipingere due tele della stessa misura e poi le incorniciamo insieme". "Così diventa un dittico" mi fece Nino, "ha un senso" continuò "se la tela è una sola". Riflettei ancora. Poi, dopo una lunga pausa, risposi: "Prepara una grande tela e domani sarò a casa tua". La mattina successiva, a casa sua, nell'attico di via Marx, mi fece trovare una tela piuttosto grande, pronta, divisa a metà con un segno a matita. "Questa è nostra" mi disse. Ed io: "Pensavo fosse più grande". E ancora: "Ascolta Nino, questa tela dipinta da tutti e due ha un senso se noi cominciamo e finiamo di dipingerla in un'unica seduta. Uno di noi lavora sopra, e l'altro sotto. Poi non importa chi di noi varcherà questa linea e invaderà il campo dell'altro. Il tuo lavoro col mio ed il mio col tuo si devono fondere, si devono miscelare insieme come in una sorta di alchimia. Noi dobbiamo mettere insieme le nostre energie con grande concentrazione in queste poche ore, accettando le "violenze" che subiremo entrambi l'uno dall'altro nel vedere "distrutto" il lavoro appena cominciato".
Organizzano una mostra insieme al Circolo di Cultura, presentati da Albano Rossi e Giambecchina, nel 1963. È un successo per i due artisti, vendono due quadri informali. Il loro sodalizio artistico determina un interesse per la pittura e un risveglio a Sciacca. Alla galleria Il Punto di Albano Rossi e Xacca di Nacci si aggiunge la Galleria Le tre Bifore del pittore Vincenzo Nucci che contribuisce alla cultura della città invitando artisti di valore. il clima artistico a Sciacca migliora decisamente.
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Un percorso esemplare
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Nel 1964 non conoscevo personalmente Nacci, ma lo conoscevo di fama. Veniva considerato, sin da allora, un fuoriclasse dagli altri giovani artisti che lo frequentavano. Partecipammo insieme alla "Ricasoliana", nell'omonima strada, a Palermo, la collettiva curata da Ciro Li Vigni e Filippo Panseca che avevano una piccola galleria Il Chiodo, difesa dal battagliero critico Francesco Carbone ed ancora alla Mostra di pittura "Sicilia 64", alla Galleria del Banco di Sicilia di via Mariano Stabile, indetta dal Centro per la Cooperazione Mediterranea. L'anno successivo, nel 1965 poco distante dal Chiodo, alla Galleria El Harka, diretta dal pittore Antonino Perricone, al primo piano di via Libertà, conosco Antonino Nacci, assieme ad altri pittori giovani, sostenuti dall'infaticabile artista e critico Francesco Carbone. El Harka è tra le più accreditate galleria d'avanguardia che espone le giovani promesse dell' arte (Michele Canzoneri, Gaetano Lo Manto, Angelo Denaro) fra le numerose gallerie che in quel periodo nascevano a Palermo. Lo ricordo, Antonino, molto riservato, introverso ma sempre sorridente, non sempre disponibile al dialogo, avvolto dal fumo delle immancabili sigarette. Giovane pittore figurativo, ventenne di belle speranze, ammiravo in lui, di alcuni anni più grande di me, sei per l'esattezza, il coraggio di utilizzare materiali inusuali. Visibilmente gli esprimevo un senso di rispetto e di sana curiosità. Intuivo che le sue ricerche andavano nella direzione giusta, se pur in maniera diversa dalle mie che si muovevano negli ambiti più tradizionali della figurazione, poiché ero mosso, sin da allora, dalla mia inarrestabile voglia di raccontare.
Nell'estemporanea "Il pittore e la modella" che si svolse a Palermo e a Balestrate, l'opera carica di elementi modulari di yuta sagomati, nasconde una figuretta in basso a destra. Produce con il taglierino una sagoma di schermo televisivo che si vede soltanto da molto vicino. In sti anni studia, ricerca, ripropone le esperienze diFontana e Burri integrandole e facendole interagire con disinvoltura. Ci si accorge che molte sue composizioni sono realizzate su supporti di tele dismesse di yuta resistente che servivano all'industria, testimoniate dalle stampigliature delle scritte: Kg 50, Solfato ammonico, dell'ANIC, provenienti dai rifiuti di Gela. Altre composizioni sono realizzate sul retro di sacchi con la scritta Porto Marghera.
La ricerca sui sacchi di yuta
A metà degli anni sessanta la ricerca incentrata sui sacchi si accresce con oggetti, frammenti di juta, schegge di legno bruciacchiati, corde e frammenti di tessuti colorati cuciti insieme con il ferro filato. Due opere, su fondi monocromi, sono particolarmente indicative delle scelte. L'emblematica opera (pag. 18) formata da 50 ritagli di giornali d'epoca, organizza 60 tondini di yuta tagliati a metà e 24 frammenti di cui otto di Mao,pugni alzati, la scritta "GAMLER gegen NPD" e una svastica. L'altra opera (pag. 21), con 36 tondini di yuta, riutilizza anche le sagome esterne a base quadrata e aggiunge 60 frammenti di giornali incollati su fondo ad olio dipinto. Una curiosità relativa ai tondi è la coincidenza in un ritratto dell'artista, forse in una performance, su un cumulo di tronchi tagliati a catasta (pag. l O). Nell'Isola è certamente considerato tra gli artisti e i ricercatori di spicco più importanti. Aderisce con convinzione, con opere di assoluta originalità, alle esperienze più avanzate della ricerca pittorica. Soprattutto nella fase formativa è come ripercorrere, attraverso le ricerche del periodo,alcune vicende delle avanguardie dall'informale all'arte materica, sino all'arte povera.
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Gli anni della contestazione e l'impegno ideologico
Gli anni della contestazione (1968) sono un'irripetibile stagione di passioni civili e sociali che lo coinvolgono. Comunista convinto, respira il "clima di lotta" del periodo. E quasi a indicare le sue scelte politiche, strane le coincidenze della vita, abita in Via Carlo Marx per moltissimi anni. Ideologizza il suo lavoro, la sua "protesta", nei confronti dell "grandi ingiustizie del mondo", affronta con decisione il travaglio ideologico della nostra generazione. I "collages", di questa stagione d'impegno artistico, anche ideologico e politico (svecchiamento della cultura e modernizzazione del "sistema"), si arricchiscono di ritagli di giornali con i ritratti dei personaggi chiave dell'epoca (Mao, Ho Chi Min, Che Guevara), ma anche di fotografie o ritagli di riviste dalle quali estrapola elementi legati alle problematiche di questi anni (la lotta di classe, il nazismo, la Cina, il Vietnam, l'atomica). La casa di Via Carlo Marx, che gli permetteva di ospitare gli amici pittori che andavano a trovarlo a Sciacca, era un grande appartamento nella cui terrazza di trecento metri quadrati, organizzava addirittura delle estemporanee di pittura.
Molti artisti partecipavano e usufruivano della sua generosa, disinteressata ospitalità. Salvatore Bonura, il pittore naif, realizza in una di queste occasioni un disegno a biro sgraffiato su una carta di giornale. Altre piccole opere fanno parte della preziosa collezione conservata religiosamente dalla moglie Enza. Questi anni vissuti all'insegna della politica e dell'arte sono una importante utopica stagione e costituiscono il credo di un'intera generazione, riferimenti e valori che Antonino mantiene per tutta la vita, e lo diceva. Prima viene la famiglia e poi il lavoro. E a questi due riferimenti, fondamentali dell'esistenza di ogni uomo, si attenne per tutta la vita. Testimoniano i figli e la moglie che a tavola, momento cardine d'incontro, si parlava di tutto, di problemi, di politica, della rivoluzione culturale in atto, si dissertava d'arte. Affermando così la solidarietà, la forza dell'unità familiare tra i fratelli.Particolarmente significativa, nel 1968, la mostra "Giovani pittori a Sciacca", alla quale partecipa Nacci, presentata da Leonardo Sciascia che ben identifica la passione civile, l'impegno politico del momento, la presa di coscienza della questione meridionale: "una rassegna non competitiva dei giovani pittori saccensi più o meno dotati, più o meno ricchi di esperienza, ma certamente tutti di buona fede nel loro lavoro, carichi di fervore e di passione. E anche di rabbia: che si veda o no nelle loro tele. Perchè non bisogna dimenticare che siamo in una delle zone più depresse d'Italia, delle più "difficili" socialmente politicamente umanamente; e quasi dentro quella Valle del Belice in cui migliaia di persone vivono, ormai da un anno, in condizioni indegne di un popolo che si dice civile, di uno Stato che si dice democratico.
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Estetica del frammento
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Riaffiora l'interesse verso le scansioni ritmiche del linguaggio fatto di "segni a forchetta" di Giuseppe Capogrossi. Nella sua continua ricerca e vivace curiosità scopre i graffiti e si accosta alla cifra compositiva di Antonio Virduzzo (1926-1982) e con disinvoltura ai segni virduzziani ingloba i tagli fontaniani. Ogni segno tracciato racconta una propria storia, un trascorso, animato da una forza istintiva. Nacci non vuole comunicare immagini riconosciute ma riconoscibili. È dichiaratamente interessato ad un' estetica del frammento. Probabilmente per l'artista è fondamentale decifrare il senso profondo dell'inconscio nei labirinti della mente, nei percorsi possibili delle soluzioni e delle ipotesi narrative. Non vuole raccontare, cioè, ma evocare, con un pretestuoso linguaggio simbolico e lasciare, in un rimando senza fine, tracce come impronte, interpretabili. Vuole suscitare interrogativi. Attraversa un territorio che coglie dal linguaggio segnico, l'humus della riflessione sull'indefinitezza e sulla affabulazione dialettica tra astrazione come riscatto dalla forma, ma soprattutto ricerca della irraggiungibile verità e figurazione simbolica. Attivando una circolarità più fenomenologica che descrittiva. Sarebbe banale leggere queste sue ricerche come composizioni meramente decorative, pur se ad una frettolosa lettura ciò può avvenire. Poiché l'azione progettuale e compositiva di Nacci opera nei territori dialettici di una decostruzione lingui-stica' appropriandosi di un finto "linguaggio" evocativo di altre sconosciute culture. Nacci manipola e controlla gli apparati consolidati della comunicazione, fra segno verbale e segno iconico; stravolgendo l'ordine di un discorso e ricombinandolo a suo piacimento, all'infinito.
L'allineamento ossessivo di simboli che si rincorrono, ordinati a gruppi e "sistemi insiemistici", nei tragitti delle formiche, nella teorie delle costruzioni e delle forme, suggerisce un "sistema" rappresentativo personale e inconfondibile. Organizza un'iterativa scelta compositiva che agisce dentro un' eco nei simboli, nelle scritture, negli archetipi di ogni cultura, si riappropria quasi delle prime scritture petrografiche, espresse con criteri rappresentativi ideo-pittografici cioè rivelatori di un concetto. Ai segni pittografici di citazione egizia-na, messi in sequenza, si aggiunge oltre che la rappresentazione dell' oggetto, il rapporto correlativo tra gli oggetti che esprimono concetti precisi sin dagli albori dell'umanità. Ancora oggi, del resto, in alcuni luoghi sperduti, lontani dalla civiltà cinese più avanzata, sono in uso segni (pittografici) millenari che esprimono concetti, pur non essendo scrittura corrispondente alla lingua parlata. In un intenso monologo che aspira a decifrare il mondo, si rapporta con lo spazio della superficie piana, attraversato da corsie e fasce che allude amolteplici piani in un eterno procedere e ricercare che comincia, si ripete, ricomincia dove le geometrie del caos vengono ricondotte in un rigoroso ordine armonico. Costruisce un vocabolario personale che utilizza per rielaborare le immagini della sua poetica che attinge a piene mani nella storia della sua vita.
Usa la sabbia finemente raffinata, legata da colla vinilica alla tela e poi graffita. I segni rimandano a incisioni rupestri, ad accenni di elementi capogrossiani soprattutto nei collages e negli assemblaggi, a insetti, a finte planimetrie e a forme di varia natura. Le opere contengono indifferentemente i segni della terra (sabbia) e i segni dell'uomo (graffiti). Nel rigoroso equilibrio compositivo, esplode l'intensa carica evocativa e simbolica dei graffiti che, quasi ossessivamente, si ricorrono, fluttuano su fondi monocromi, si muovono in tutte le direzioni possibili alla ricerca di una stabilità. Emerge una costante nella struttura delle opere modulari: organizza i segni e le forme chesi realizzano nello spazio ritmato dell' opera stessa, come se si trattasse di un fraseggio musicale. Mi viene in aiuto Francesco Carbone (1923-1999) in "Nuova Scrittura" (1982) che, analizzando le forme e il ruolo dello scrivere oggi, i suoi contenuti, i significati di comunicazione a vari livelli di partecipazione puntualizza: "La Nuova Scrittura non mira più ad essere la traduzione fedele del parlato, ma a collocarsi in una dimensione tutta propria, dove gli assetti semiotici della scrittura stessa riflettono le reali connotazioni dell'universo segnico e non più quello prevalente (prima) della parola". Ancora: "Una scrittura, insomma, che non è più per la voce ma per la mente". "Se ciò è accaduto e accade, e se la scrittura sarà destinata ad altre trasformazioni nel suo divenire, insediata e condizionata da molti altri fattori che prima essa ignorava, perché ritenuti estranei alla propria natura, 1'artista del nostro tempo non può non registrare sia consapevolmente che nell'inconscio, l'universo di segni e segnali, di simboli che gli sta attorno e nel quale egli si trova totalmente immerso, finendo così, per produrre segni in forma di scrittura" ... ( ... ) "Parola e immagine sono entrati in simbiosi con la creatività e l'immaginario del nostro tempo, stabilendo tra l'altro un diverso rapporto d'intesa con le nuove forme di scrittura volte ad essere espressione di multigrafie, di più linguaggi insieme, e a superare il concetto di esteticità e artisticità di una volta, per stabilire in definitiva una nuova dimensione antropologico-culturale della scrittura".
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Operatore culturale
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Nacci dirige la piccola galleria "Xacca ", dal 1966 al 1974; ospita artisti, organizza estemporanee e mostre collettive di respiro a Sciacca, in collaborazione con la galleria Il Punto di Albano Rossi a Palermo. Si trasferisce a Biella per due anni per insegnare (1974-1976), conosce nel frattempo molti artisti e frequenta la cultura locale. Sono anni formativi ed importanti per l'artista. L'amicizia con Albano Rossi, nata a Sciacca, sarà determinante per la sua carriera artistica. L'altro incontro determinante sarà quello con la gallerista Fiamma Vigo, fondamentale sostenitrice dell' arte astratta, che intuisce il valore dell' artista monrealese e lo sostiene e valorizza facendolo conoscere e partecipare a numerose collettive nelle sue gallerie di Venezia, Firenze, Roma e Milano.
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Le strisce-oggetto
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La maturità che si delinea e conferma nell'ultimo decennio, espressa nel solco di una matericità segnica conferma una delle stagioni più alte e convincenti della cultura figurativa siciliana grazie alla sua ricerca. Le strisce-oggetto, intanto, dichiarano un'intenzione scritturale e narrativa ravvisabile negli emakimono giapponesi disegnati su rotoli esponibili sia in verticale che in orizzontale. Strisce di tela ricoperte di sabbia, incise con un chiodo rimandano ad allusivi geroglifici, a scritture arcaiche di una grande forza evocativa. Le strisce di sabbia graffita si svolgono come dei tazebao, come degli emakimono e nelle sue esperienze di scrittura graffita tra ideograrnrni e segni ritroviamo un atteggiamento tautologico, il tentativo di riappropriarsi di archetipi dimenticati, di ideogrammi mitici. Appare come se le sue composizioni si esprimano nei ritmi di una scrittura automatica. Un inventario di segni, iconici e scritturali che restituiscono scritture stranianti. Forme di sapienti annotazioni e di trascrizione di codici antichi prelevate da culture arcaiche. Rimandano apossibili scritture esoteriche non decifrate, né decifrabili. Emerge quasi un senso di diffusa sacralità che offre la sensazione di trovarsi davanti ad uno spazio inestricabile, inaccessibile.
Segni esemplificati e scritture di figure zoomorfe, frecce e simboli umani sono allineati ritmicamente in percorsi obbligati, rincorrono simbologie astratte. Antonino Nacci dipana in lunghissime superfici a fasce, fondi di sottile sabbia nei quali "segna ideo grammi esoterici e alfabeti personali di memoria latino-americana in inventate decorazioni magico-alchemiche". Avvertiamo in lui la necessità di un linguaggio, quasi mistico, depurato dalla rappresentazione che affida il probabile racconto a segni e a interi vocabolari di simboli astratti. La memoria della scrittura inventata stabilisce un rapporto magico con le scritture reali, al di là delle "usure" che il tempo pratica nella storia ed è come se ci relazionasse di un viaggio attraverso la memoria.
Lo spazio magico della parola, rimanda a un "oltre". Un processo iterato che restituisce la necessità di un linguaggio diverso. Organizza "strutture segniche", quasi un "sistema di pensiero", continuamente ripetute, ossessivamente rielaborate, che vogliono relazionarsi e risignificarsi in scritture infantili o primitive. La sensazione sarebbe quella di esplorarle fisicamente. Circoscrive e delimita nella superficie del quadro, una "zona del sacro", disvelando la possibilità di poterla comprendere e possederla. Sembra quasi voglia evocare un rito che percorre vie misteriose dell'anima o meglio della coscienza.
Faccio una riflessione. L'elemento decorativo in Nacci come nella cultura islamica. Viene subito da pensare alla Cattedrale di Monreale, città nella quale è nato e conosce molto bene o alla Cappela Palatina di Palermo, alle geometrie musive degli arabeschi; alla cadenza modulare dei motivi dei decori, nelle lesene che si susseguono con regolare alternanza, nelle circa 500 fasce verticali delle pareti, l'una diversa dall'altra. La "modularità" è riferita soltanto alla ripetitività dell' elemento scelto.
I simboli e i segni adottati sono tutti diversi l'uno dall'altro come appunto avviene nella cultura islamica. Solo quando utilizza le processioni di animali inventati, di insetti o di forme compositive, si ripete e allude al movimento all'interno della forma e il rimando immediato è ai graffiti della Grotta dell' Addaura di Monte Pellegrino a Palermo o alle essenziali ed espressive opere graffi te nordafricane. Puntualmente Giuseppe La Monica avrà modo di affermare in questi anni che con Nacci il reale smarrisce ogni connotato certo. "Ciò che rimane intatta è la memoria, ma priva di orpelli, ridotta a traccia che viene impressa nella materia pittorica. Interamente assente è, invece, la fenomenicità, l'evento, la possibilità aperta, la trasgressione del reale da parte di Nacci.
Il piano di rappresentazione è simbolico e rituale e viene interamente affidato al segno. Esso è gesto (rito) e traccia (simbolo), nella doppia natura di esso l'artista consuma il suo rifiuto della complessità, il suo bisogno di ritornare alle cose semplici e originarie (non è certo un caso che sia la sabbia il supporto su cui il segnoviene scavato). La pulizia formale, l'uso di pochi e mai accesi colori rafforza l'essenzialità e concorre al congelamento delle emozioni". Forme isolate nel bianco. Il bianco o il grigio di fondo, qualsiasi altro colore, diventa anch' esso protagonista e possiede lo stesso peso dei segni, dei rilievi ideo grammatici sulla sabbia, nell' economia generale della composizione. Mi riferisco al forte impatto materico delle opere di yuta, ai col-
lages, agli assemblaggi nei quali "elementi riciclati" s'inseriscono a pieno titolo in un composto impianto pittorico, diventano elementi narranti.
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Tre acqueforti per i cinquant'anni
Sono trascorsi ormai ventitre anni dalla scomparsa di Antonino Nacci avvenuta nel 1989, a soli cinquant'anni. L'ultima mostra alla quale ha partecipato "Percorsi d'arte" (7 agosto /7 settembre) è stata organizzata, nel 2004, dal pittore Vincenzo Nucci. La mostra ripropone lo storico appuntamento "Un punto nel Mediterraneo" presso l'ex Convento San Francesco con gli artisti di Sciacca: Rosario Bruno, Leonardo Fisco, Franco Accursio Gulino, Giuseppe Montalbano, Vincenzo Nucci, Nino Pilotto e Giuseppe Scotti. Ed un omaggio ai pittori saccensi scomparsi, Ignazio Gulino, Antonino Nacci e Salvatore Stassi.
Per i cinquant'anni del Maestro gli amici ed estimatori della sua opera, Filippo Belletti, Calogero Ciulla, Salvatore Lo Bue e Calogero Cucchiara avrebbero voluto organizzare una festa, ma soprattutto realizzare una grande antologica. Tutto rimane sospeso, però, alla notizia della sopraggiunta malattia. Gli amici, sorpresi ed
addolorati, reagiscono pensando di aiutare l'amico in difficoltà, anche economiche, facendo una raccolta di denaro. Nacci consapevole della malattia e del futuro della sua famiglia orgogliosamente propone, allora, di realizzare una cartella con le acqueforti, frutto del suo lavoro, per giustificare le donazioni. Nasce così la cartella: Tre acqueforti per i cinquant'anni di Nino Nacci a cura di Francesco Lo Bue, con un testo critico di Albano Rossi per l'edizione del Giornale di Sciacca nel 1989.L'anno della scomparsa.
Scrive Francesco Lo Bue in cartella: "Il tempo, dimensione relativa, non assoluta, il cui svolgersi è indipendente, legato ad altre dimensioni, è l'imparziale notaio dell'esistenza umana". Ed ancora: "La pubblicazione di questa cartella vuole costituire lo spunto per presentare alcune testimonianze della sua opera grafica, ancora pressoché inedita". Aggiunge anche: "La mostra antologica dell' artista ci permetterebbe di apprezzare nella sua molteplicità i percorsi artistici seguiti da Nacci nella sua ormai decennale attività che, per
la naturale riservatezza dell' Autore, presenta ancora aspetti sorprendentemente ricchi di originali riflessioni".
A proposito delle tre acqueforti Albano.Rossi che conosce molto bene l'opera pittorica sin dalle esperienze informali, avverte che la sua ricerca incisoria è avvenuta successivamente a quella di pittore e scrive: "Le forme di Antonino Nacci si fissano in uno spazio primitivo aperto: anche quando appaiono come imprigiona-
te entro i margini, o gli argini, determinati dai rettangoli, dai quadrati o dalle strisce in cui s'incastonano" . .. ( ... ) Antonino Nacci antepone un concetto platonico del fatto estetico, un universo di segni idee svincolati da rapporti con la realtà effettuale; veri paradigmi mentali non toccati dalla storia, vergini da contaminazioni temporali. Da qui 1'arcaismo di una pittura ricavata da immagini preesistenti all'inconscio, affondate in un'età dell'oro barbara e innocente, il cui significato turba e disorienta come i segni rupestri graffiti nelle grotte paleolitiche di Altamira".
Questa mostra
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Questa antologia di opere dal 1962 al 1989, non costituisce una lettura esaustiva dell'intera vicenda artistica di Antonio Nacci, manca la straordinaria continuità dialettica dell' opera grafica, esposta se non per brevi accenni; ma è strutturata come una antologica, incentrata sul lavoro dell'ultimo decennio della sua vita, quello della maturità, con qualche incursione negli anni sessanta e settanta. A proposito del disegno, è opportuno ricordare che tutte le opere sono rigorosamente disegnate dell' artista monrealese sia nell'impianto compositivo che nelle scelte ideo grammatiche e nelle forme inventate. Risulta ancora oggi sorprendente e per alcuni versi inquietante, prendere atto della mole di lavoro compiuto con esemplare continuità per tutta la vita. Il suo è stato sempre un percorso coerente, in cui si sono integrati e rinsaldati l'indiscutibile tecnica, gli sconfinamenti linguistici e gli attraversamenti delle esperienze delle varie stagioni di ricerca, gli intrecci e gli incroci linguistici.
A proposito della tecnica, analizzando le opere dopo alcuni decenni, se ne apprezza l'integrità. Nessun cedimento degli impasti di sabbie e colle, nessun segno di decadenza. La cura meticolosa e sapiente delle mescolanze delle terre negli impianti compositivi su tela rimane inalterato a distanza di più di quarant'anni.
L'appuntamento palermitano si riallaccia idealmente, poiché sono state queste le intenzioni di chi scrive proponendo questa mostra, al desiderio degli amici di Sciacca, di festeggiare i cinquant'anni di attività. Se'pur tardivamente, questa mostra viene fatta nel prestigìoso Palazzo Sant'Elia, ex Cavallerizza, riproponendo, grazie all'impegno della famiglia e dei suoi numerosi estimatori, la ricerca anticipatrice nel territorio della "pittura segnica" di un vero Maestro siciliano che merita un'attenzione esaustiva, più consona. Una doverosa grande antologica.
Sperare contro ogni speranza
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La stagione geometrica degli ultimi anni coincide con i più sofferti e malinconici per l'artista che lavora senza tregua, senza pause. L'ultimo frenetico anno di lavoro, prima della prematura scomparsa, speso razionalmente e generosamente a pianificare i destini della propria numerosa famiglia, è caratterizzato da una tavolozza scurita che modula le superfici con il nero e il rosso intenso inseriti in un rigido schematismo geometrico.
Cerca, attraverso le diagonali, una via di fuga, fa assumere al significato dei colori il suo dolore e la sua malcelata speranza, esorcizza l'angoscia della fine con un cupo stordimento cromatico. Con lucidità e rara sensibilità umana mette ordine ad ogni cosa che lo riguarda soprattutto nel rapporto con la famiglia che è sempre stato il suo riferimento sicuro, la sua forza. In questo faticoso periodo realizza una grande tela in una composizione con tre strisce colorate che dedica alla moglie Enza. Il fondo è bianco e simboleggia la luce, la speranza della salvezza. Un collezionista ha occasione di vedere l'opera, se ne innamora e la vuole acquistare a tutti costi. Il pittore la cede, malvolentieri. Seppure Enza lo incoraggi, non è contento. Con fatica e sforzi ne realizzerà una copia per la moglie alla quale l'altra era stata dedicata. Un quadro assolutamente identico, su fondo bianco, sarà l'ultima opera del Maestro.
presentazione in catalogo, mostra "Antonino Nacci Antologia di opere dal 1962 al 1989", Palazzo Sant'Elia ex Cavallerizza, 9 marzo- 8 aprile 2012
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Nei nostri occhi si leggeva la speranza
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Da quando mi affacciai alla finestra del mondo dell'arte ad oggi, sono passati 50 anni e più e, credetemi, non me ne sono accorto. Nelle ore serali, soprattutto, i ricordi riaffiorano: ti soffermi su ciò che hai fatto, sulle cose che hai visto, sulle persone che hai conosciuto, che hai amato. Cercando nella mia libreria, fra le cose del passato, mi ritrovo fra le mani una scatola strapiena, chiusa con un cordoncino dorato e sbiadito: contiene vecchie foto mie, di famiglia e di quadri degli anni sessanta. Mi soffermo ancora sulle foto più piccole della mia seconda mostra personale e su un piccolo catalogo: Vincenzo Sciamè-Antonino Nacci, Circolo di Cultura, Sciacca, 23 giugno-5 luglio 1963. Mi rivedo ragazzo, col sorriso sulle labbra, assieme a Nino (così lo chiamavo), all'avvocato Emilio Paladini, e al Sindaco La Torre. "È vero" - mi son detto "nelle foto non s'invecchia
mai e ti ricordano chi e come eri" . Nei nostri occhi si leggeva la speranza.
I miei primi incontri con Nino, molto fortuiti, avvennero all'Istituto d'Arte di via Schiavuzzo, a Palermo. Pur essendo in classi e sezioni diverse, durante l'intervallo parlavamo dei nostri progetti, dei nostri sogni, scambiavamo i nostri pareri. L'ex Monastero sconsacrato col suo giardino quadrato, il classico pozzo a centro e cinto dal loggiato, sembrava fatto apposta per noi. Per motivi anagrafici, Nino si diplomò qualche anno prima di me. Dopo qualche anno, frequentando entrambi il Sindacato Libero delle Arti Figurative, ideato e diretto dall'encomiabile prof. Albano Rossi, partecipammo a qualche mostra insieme. Ma il vero sodalizio cominciò nel novembre del 1962 quando ci ritrovammo, insieme, insegnanti nell'Istituto d'Arte di Sciacca. Questa città, tanto bella, artisticamente dormiva, indisturbata nel suo sonno profondo. I pittori anche bravi dipingevano per le occasioni. Una città, Sciacca, con un passato artistico culturale illustre, ma chiusa e sonnolenta nel suo guscio, mi diede una stretta profonda al cuore.
I Saccensi amavano e compravano la ceramica, per la pittura non c'era posto. Sicché quando prendemmo in affitto due camere in un appartamento dell'amico Franco Spallino in via Marx, per creare uno studio d'arte, la gente che cominciava a conoscerei, ci considerava degli squilibrati.
La coabitazione era proficua nel tenere alti i nostri entusiasmi artistici, ma spesso fra me e Nino le discussioni erano agitate. Certe volte voleva mandarmi fuori strada sostenendo che la pittura non si fa più col pennello: "Ma chi pitti ancora cu' pinzieddu?" Ed io, di rimando, che i sacchi che lui incorniciava servivano solo percontenere frumento e cereali vari. Certe volte sembravamo nelle diatribe Van Gogh e Gauguin; però, alla fine, un punto d'incontro si trovava sempre, soprattutto a tarda sera. Le nostre ricerche erano diverse: lui non aveva studiato pittura, quindi pensava che essa si potesse fare con altri materiali; io, invece, cresciuto con il colore dentro il corpo, non concepivo un quadro senza l'impasto del colore.
Nino Nacci era stato affascinato dai sacchi di Burri, io invece ero stato preso dalla Action Painting americana, rappresentata in Italia da Vedova. Nino cercava la composizione attraverso la juta, poi con sacchi ritagliati, bruciacchiati, cuciti, incollati, scritti. lo invece aggredivo la tela con violenta gestualità. Una pittura anche materica la mia, ottenuta con impasti in bianco e nero, con pennellate larghe. Facevamo ricerche e le ricer- che permettono di scoprire nuove vie.
Quello che, secondo me, avvenne d'importante tra me e Nino non si può non ricordare: una sera quasi litigammo. Dopo vari ripensamenti dissi a Nino: "prendiamo il toro per le corna ... Chi siamo? Dove andiamo? .. La vogliamo smettere di guardare gli altri? .. Noi possiamo fare anche meglio se cerchiamo la verità dentro di noi ... ". Nino annuì muovendo due volte la testa su e giù. "Forse hai ragione" rispose. Ci fu subito un lieve mutamento nei nostri percorsi: io diventai più riflessivo, riducendo al minimo la violenza pittorica, e Nino abbandonò il fil di ferro, i tagli, le lacerazioni e andò alla ricerca dei sacchi con le lettere stampate,alla ricerca anche del colore che essi stessi avevano. Era il 1963 e organizzammo subito, con questa
nuova produzione, una mostra a Sciacca presso il Circolo della Cultura. La mostra venne visitata da un folto pubblico sprovveduto, ma la vendita di due quadri per Nino e di due per me suscitò ancora curiosità, L'unico a credere nel nostro lavoro era stato Nuccio Galluzzo, raffinato intellettuale da ricordare.
Poco tempo dopo ci separammo: Nino si sposò con Enza, lavorò a casa sua e le nostre strade si divisero.
Un giorno però, all'improvviso, Nino mi propose un progetto: "Che ne pensi di fare alcuni quadri insieme?". Mi sorprese. "Spiegati meglio", risposi. E lui a me: "C'è poco da spiegare: prendiamo una tela,
la dividiamo a metà, ... tu dipingi in un lato e io nell'altro, insieme". Volevo sorridere e invece riflettei.
Poi risposi: "Che senso ha? Tanto vale dipingere due tele della stessa misura e poi le incorniciamo insieme". "Così diventa un dittico" mi fece Nino, "ha un senso" continuò "se la tela è una sola". Riflettei ancora. Poi, dopo una lunga pausa, risposi: "Prepara una grande tela e domani sarò a casa tua".
La mattina successiva, a casa sua, nell'attico di via Marx, mi fece trovare una tela piuttosto grande, pronta, divisa a meta con un segno a matita. "Questa è nostra" mi disse. Ed io: "Pensavo fosse più grande". E ancora: "Ascolta Nino, questa tela dipinta da tutti e due ha un senso se noi cominciamo e finiamo di dipingerla in un 'unica seduta. Uno di noi lavora sopra, e l'altro sotto. Poi non importa chi di noi varcherà questa linea e invaderà il campo dell'altro. Il tuo lavoro col mio ed il mio col tuo si devono fondere, si devono miscelare insieme come in una sorta di alchimia. Noi dobbiamo mettere insieme le nostre energie con grande concentrazione in queste poche ore, accettando le "violenze" che subiremo entrambi l'uno dall'altro nel vedere"distrutto" il lavoro appena cominciato". Nino voleva interrompermi ma io non lo feci parlare. "Ancora non ho finito", continuai, "tre ore dopo il pranzo la tela, in qualunque stato si trovi, verrà firmata e considerata finita. Approvi? Sei convinto? Se ti sta bene, possiamo cominciare". Lo vidi impallidire compiaciuto. "Questo", dissi con l'indice dritto verso la tela "potrebbe essere il primo di una lunga serie, progetteremo presto una mostra magari". Iniziammo subito ...
Questo progetto, purtroppo, non è stato realizzato per i vari eventi nelle nostre vite. Questa mia testimonianza, chiestami dall'amico Nicolò, vorrei dedicarla a Nino Nacci, artista per il quale ho avuto stima. Se gli eventi fossero stati ribaltati anche Nino, penso, avrebbe fatto la stessa cosa per me. Conservo un articolo di Renato Giani pubblicato dal Giornale di Sicilia, il 3 Febbraio 1965: "lO Artisti siciliani a Roma", che la Biennale Internazionale di Palermo ha portato ad esporre in gruppo dal 2 al 15 Febbraio alla "Galleria Piazza di Spagna". Sottolinea Renato Giani: "Qualcosa di buono hanno da dirci Sciamè e Nacci, ma il loro impegno si sfoca per la presenza di troppi ristagni".
Vincenzo Sciamè,
presentazione. in catalogo, mostra "Antonino Nacci Antologia di opere dal 1962 al 1989", Palazzo Sant'Elia ex Cavallerizza, 9 marzo- 8 aprile 2012
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Antonino Nacci l’inspiegabile oblio di un artista che aveva capito solo Albano Rossi
Un'opera di Antonino Nacci fino all’8 aprile 2012, presso l’ex Cavallerizza del Palazzo Sant’Elia di Palermo, la Provincia regionale di Palermo ha dato vita alla mostra antologica di Antonino Nacci. Ancora una volta e con la necessaria attenzione l’Ente ospitante propone una nuova mostra ricca di spunti per riflettere circa la condizione artistica dei produttori d’arte siciliana i quali spesso si perdono nei corridoi della politica regionale “distratta” (rispetto ad altri Enti pubblici) e poco incline alla valorizzazione del prodotto Made in Sicily a prescindere dalle risorse economiche in campo. Lo abbiamo notato in questi ultimi due eventi organizzati dalla Regione Siciliana “Artedonna 1850 - 1950” e “Da Sciuti a Dorazio”. In altri termini bisogna essere morti per avere la certezza che la politica culturale regionale possa accorgersi di te. Diversamente devi avere un qualche “santo” all’assemblea regionale o in qualche assessorato. Ma questo è un discorso vecchio, per sordi, le sirene di ulissiana memoria cantano solo in questi giorni pre-elettorali, spero solo che i seguaci di Ulisse si facciano legare all’albero maestro della nave.
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Ma è di Antonino Nacci che ci si deve occupare in questo frangente e lo voglio fare cercando di essere obiettivo per quanto obiettivo può essere chi scrive dopo avere visto una mostra.
Non me ne vogliano quanti nel tempo si sono interessati al lavoro di Antonino Nacci ma di fatto gran parte del merito della sua affermazione quale raffinato artista, sperimentatore e ricercatore lo ha avuto certamente Albano Rossi noto critico d’arte, arrivato a Palermo nel 1953 dopo avere vinto il concorso per la collaborazione con la Rai siciliana per la rubrica radiofonica delle arti del gazzettino di Sicilia (lo afferma peraltro, in più punti, anche il curatore Nicolò D’Alessandro nel corso del suo saggio in catalogo). Suoi sono infatti presentazioni e scritti sull’artista dal 1962 al 1965 (ma la loro conoscenza e collaborazione duro fino alla scomparsa di Antonino Nacci avvenuta nel 1989). Sono gli anni dei sacchi, delle cuciture con fil di ferro, sono opere di ricerca di un giovane artista poco più che ventenne che aveva già chiara l’idea di un nuovo modo del fare arte. Interminabili erano le conversazioni e le divergenze a tal proposito con l’amico e pittore Vincenzo Sciamè e non solo. È ovvio che l’influenza dei maestri Alberto Burri (i cui primi sacchi risalgono al 1953) e Lucio Fontana (con i tagli che fanno la loro comparsa nel mondo artistico fin dal 1949) lo accompagneranno per tutti gli anni Sessanta con intuizioni pregevoli al punto da non potersi considerare un rifacimento legato a questi maestri ma certamente un’elaborazione sia concettuale che concreta. Egli infatti squarcia la tela, intendendo con ciò non un taglio ritmico come Fontana, ma asimmetrico e violento, vedasi “Lacerazioni” del 1967, e quindi in qualche modo andando oltre.
Ovviamente, per quella che era la sua personalità, a Nacci tutto questo non bastava, era alla ricerca di un suo modo personalissimo di esprimersi, sicché abbandonato questo periodo - a mio avviso molto fecondo - inizia quello che può essere considerato il suo personale primitivismo “il graffio” sulla sabbia. Egli stende, servendosi di colle, un “velo” di sabbia finissima sulla tela e la elabora con le sue incisioni. Inizia così un lavoro di indagine sulla progettazione del simbolo con il quale si sarebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni. Si concentra in particolare sui graffiti della Valcamonica ricca di incisioni rupestri ma anche su quelle delle grotte dell’Addaura, di Altamira e altri. Sono tantissimi infatti i siti che indaga per comprendere il senso profondo di quelle antiche popolazioni del paleolitico che hanno sentito per primi la necessità di trasmetterci il loro messaggio divenuto oramai millenario. Come vivevano, quali erano i rapporti tra uomo e animale, simbologie religiose, il sistema di caccia, progetti e tanto altro. Tutto ciò determina nell’artista la necessità di una nuova “scrittura”, di nuovi ideogrammi.
Quasi ipnotizzato seguo le diverse forme che si alternano in modo armonico. Una serie di tessere tracciano figure filiformi danzanti su incerte cavalcature si alternano ritmicamente ad un improbabile serie di uova spezzate a metà come se già avessero esaurito la loro funzione di generatrici della vita. Eleganti scarabei in processione “ricamano” la sabbia finissima sulla quale sono state impresse tutte le sue figure dal 1970 in poi. Sono paesaggi e figure di un suo personalissimo immaginario atemporale imprigionati in formelle come a volerne delimitare lo spazio ma che tutte insieme formano un mosaico elegante e ricco di simbologie. Tante, tantissime sono le immagini di opere che abbracciano il periodo della sua attività artistica 1962 – 1989 così come le testimonianze e scritti di storici e critici d’arte presenti nel catalogo di Antonino Nacci. In questo senso va dato merito a Nicolò D’Alessandro che ha curato sia i testi che la mostra e non ha voluto, per quanto gli è stato possibile, tralasciare nulla. Un’antologia veramente pregevole dalla quale ho estratto due piccole tessere.
La prima riguarda un testo molto articolato scritto, in occasione della presentazione in catalogo della mostra “Giovani pittori di Sciacca” 1968, da Leonardo Sciascia che concludendo scriveva: “(…) Perché non bisogna dimenticare che siamo in una delle zone più depresse d’Italia, delle più “difficili” socialmente, politicamente, umanamente; e quasi dentro quella Valle del Belice in cui migliaia di persone vivono, ormai da un anno, in condizioni indegne di un popolo che si dice civile, di uno Stato che si dice democratico.” Mi verrebbe da aggiungere che da allora poco e niente è cambiato. L’altra è un delicato testo del suo carissimo amico Mario Giammona che conclude la poesia “Ninu picchì t’innisti” con questi versi: “(…) Ah Ninuzzu! / Picchì t’innisti e mi lassasti sulu! / Ah / S’iu putissi tirari ancora nà pitrata.”.
La mostra a Palazzo Sant’Elia, Via Maqueda Palermo, si concluderà l’8 aprile 2012 testi in catalogo di Nicolò D’Alessandro e testimonianze di Vincenzo Sciamè, Mariella Nacci ed Enza Sciortino; orari di visita da martedì a sabato dalle 10,00 alle 19,00 domenica dalle 9,30 alle 13,00 lunedì chiuso, ingresso gratuito. Per dovere di cronaca il catalogo è stato finanziato dall’Assessorato regionale ai Beni culturali e Identità siciliana.
Palermo li, 25/03/2012
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Artifex ludens
Una formica rituale, in cerca di una meta, segue paziente una scia silenziosa; forme antropomorfe e consapevoli si attraggono tra terra e cielo, librandosi dentro un’atmosfera indefinita; pesci-ictys guizzano, volando su onde zigzaganti; lucertole, cavalli, meduse e strani vegetali marcano la loro presenza all'interno di strisce verticalizzanti, di spazi impossibili…Poi ancora segni – tanti segni – incidono la materia: sfere, triangoli, quadrati, spirali, frecce, lettere dell’alfabeto, falci di lune ed ogni sorta di graffito.
Nel mondo di Antonino Nacci, una miriade di elementi abitano i luoghi. Sono presenze dinamiche, sfuggenti, ripetute, organizzate; contrassegnano un territorio psicologico e si configurano come rappresentazioni ludiche di un codice-concetto già strutturato. Nacci ama i colori della terra e li recupera nella porosità della sabbia. Stende con delicatezza il materiale mischiandolo alla colla vinilica e incidendolo con tratto sicuro. Pur non descrivendo la bellezza, ciò che costruisce è bello, ponderato. La sua pittura, lucida e controllata, esprime una grande forza comunicativa attraverso una tavolozza apparentemente povera ma ricca di variazioni tonali.
La mostra di Nacci – in un viaggio che guarda oltre – dialoga con segni e forme che si muovono in spazi ben definiti e diversamente colorati, che hanno la capacità insita di descrivere, stimolare ed evocare, incuneandosi tra delicati cromatismi tonali e rese materiche. Il suo mondo, è un Caos-Logos irrazionale ma determinato in cui gli elementi ritmati esprimono la ricchezza interiore nel modo di relazionarsi più che nel loro valore unico. L’ operare giocoso di Antonino Nacci – homo faber - delinea una tabula atemporale e adimensionale che imprime allo spettatore una irresistibile componente emozionale e attrattiva, un’estetica fantastica e dinamica dentro la quale, come sosteneva il fisico Gert Eilenberger – “la combinazione armonica di ordine e disordine riconduce, in natura, al senso della bellezza…” L’apparente confusione generata da segni e forme è controbilanciata da precisi ritmi vettoriali che incanalano i flussi di elementi all’interno di scie sinuose o di spazi ben delimitati e caratterizzati che a loro volta sfociano in veri e propri cartigli ideo-grammatici o determinano elementi pitto-formali. In un tutt’uno, il piano strutturale gioca con le stratificazioni della materia sabbiosa creando un “progresso materico” di opera in opera, dalla forte carica immaginativa.
In questo contesto, Antonino Nacci, pur avendo chiara una visione culturale sui fatti storici e sul quotidiano, propone un mondo “leggero”, privo di tensioni fisiche e gravitazionali, dove le “famiglie di elementi” sono organizzate e perfettamente riconoscibili. La tessitura di equilibri spaziali, se letta in chiave puramente decorativa, può trarre in inganno. La sua, in realtà, è una tabula viva, luogo degli eventi (per dirla con Pollock) e possiede una vita autonoma. In essa i segni-forma vanno considerati inseparabili rispetto alla resa calligrafica, ai materiali adoperati e al formato che li supporta. Nacci, non intende raccontare ma lasciare tracce, suscitare interrogativi. Nelle sabbie il gioco comunicativo – tra incanto e disincanto - è assai delicato. Qui l’artista propone un attento bilanciamento di pesi e contrappesi, alternando il prima e il dopo temporale, il qui e l’altrove fisico, il piccolo e il grande dimensionale, relazionandosi simbioticamente con il suo aspetto psichico e umorale.
E’ in questa fase che Nacci – artifex ludens - indaga il quotidiano con ironia e saggezza, analizzandone eventi ed avvenimenti dinamici (panta rei), una realtà reinterpretata, riscritta, rimodulata e convertita in colori armonici e rese di materia ben calibrate, una rivisitazione dolce e poetica che esprime il senso della vita tout court. Le opere di Nacci, in sostanza, denotano una simbiosi totale con la materia. Sia che la incida, la buchi, la bruci o la ricucia - assemblandola, evidenziandola, nascondendola o, addirittura, rinnegandola - il suo operare è decisamente attuale e contemporaneo. In una realtà che sta profondamente cambiando intende assolutamente orientarsi. Le sue opere appaiono come mappe concettuali, luoghi esplorati e misurati, controllati e calibrati in cui i fatti sono meticolosamente appuntati. Piccole magie che evocano ricordi lontani, che emozionano. A metà degli anni Ottanta le sue pagine esistenziali subiranno una chiara evoluzione. La visione del mondo diventerà sempre più fluttuante ed onirica. Cominceranno così le descrizioni di mondi arcani e sconosciuti, di realtà complicate e sempre più frenetiche dove gli elementi anzidetti si misureranno, adesso, con un quotidiano che sembra irriconoscibile. Nacci, nella sua ultima produzione introdurrà il rosso ed il nero sui toni sabbiati, evidenziando la sua crisi personale e quel senso di disagio a cui il mondo sta andando incontro, ma lo farà sempre con stile e riservatezza, in punta di piedi. Il suo linguaggio, senza barriere territoriali, non conoscerà la globalizzazione del Duemila, ma la descriverà ugualmente.
Pittorica.it - Palermo, Palazzo Sant'Elia - recensione Personale di Antonino Nacci - aprile 2012.
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Astrazione e figurativismo
...Nelle produzioni del Nacci, quasi sempre, troviamo un linguaggio puro.
I frammenti lacerati, i pezzetti di filo, carta e colore recuperati dal quotidiano abbondano rappresentano schegge di storia e i segni e le simbolegie incise con la sabbia della sua isola, sono l'icona-memoria di un ventesimo secolo a cavallo tra passato e futuro...
Vincent Navarra,
"Ars Mirabilis" il patrimonio artistico in Sicilia dal XIV al XX secolo, Salvatore Estero editore, Sciacca 2012
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Antonino Nacci l’artista che si è espresso in “fuorigioco”
Monreale, 22 marzo – Alla fine degli anni ’60, a Monreale, chi praticava il calcio doveva farlo sul pericolosissimo campo della Ranteria (oggi ex campi da tennis) adagiato sul precipizio. Stefano, un mio giovane vicino di casa, dovette ringraziare il Padreterno se, essendo volato oltre il muretto di recinzione, perse soltanto l’uso di un braccio.
In quel luogo Antonino Nacci (Monreale, 1938) coltivava la sua seconda passione: quella per il pallone. Ho assistito (con disinteresse per l’aspetto agonistico) a una partita nella quale Antonino, indossando una divisa giallo-rossa e con il bell’aspetto da credibile oriundo brasiliano, correva zigzagando con i suoi compagni in verso opposto a quello di altre divise, sulle quali prevaleva il verde. Mi divertivo (quasi da spettatore neo-futurista) a immaginare le forme che quei colori in corsa disegnavano e percepivo quelle “disegnate” da Tonino come le più belle, probabilmente perché ne conoscevo il talento d’artista. A lui, militante nel “campo” dell’arte, il calcio ha regalato un’intuizione fondamentale: l’importanza del “fuorigioco”.
Negli anni ’60, a Monreale, per chi voleva coltivare il proprio talento artistico, il luogo di riferimento era uno soltanto: lo studio del Prof. Benedetto Messina che, come scriveva Albano Rossi, “si esprimeva con una maniera «antica», … troppo avvertito, consapevole e vigile sulle esigenze della pittura, per lasciarsi irretire dalla sua stessa apprezzabile «bravura».” Il primo impatto, perciò, con un’opera di Antonino Nacci, in occasione di una mostra organizzata in quegli anni dal “Centro studentesco”, animato da Don Gino Bommarito (oggi Sua Eccellenza, già Arcivescovo di Agrigento e di Catania), è stato un vero shock: come assistere a uno straordinario “fuorigioco”, appunto, oppure a un salto triplo combinato con un salto con l’asta!
Mentre io e altri ci esercitavamo sui percorsi da imporre a matite e pennelli (nel tentativo di fare convivere la “fisica” con la creatività e l’ispirazione) rappresentando paesaggi e nature morte, Antonino Nacci (un po’ più adulto) aveva già percorso quella strada e imboccato traverse inesplorate, era uscito “fuori campo”. Le sue tele, allora, erano di iuta e i colori quelli delle scritte rinvenute sui sacchi e il nero del catrame; disegnava con il fil di ferro e incastonava frammenti colorati di ceramica e scaglie di legno.
Il suo talento da vero Artista è stato subito intercettato da Albano Rossi (il critico d’arte venuto a Palermo dal Nord con una visione dell’arte di respiro europeo) che nel 1965, in occasione di una personale alla galleria “El Harka” di Palermo, così scriveva: “… Talvolta questi innesti materici fanno sbocco nel quadro, ne sommuovono la trama del fondo e vi determinano musicali contrappunti: un continuum di musica visiva pura, intensa e serrata in una sua organicità introversa, commista all’occasionalità delle materie al flusso e riflusso del reale e la cui semanticità vale solo come documento della nostra vita di tutti i giorni. Questo credo sia il messaggio poetico, e morale, dell’opera di Nacci.”
La Monreale di quegli anni, grazie all’operosa intesa tra il Prof. Pino Giacopelli e il critico Albano Rossi, riservava agli artisti diversa attenzione. Antonino Nacci allestì mostre personali, nella sua città e in spazi diversi, nel 1963, ‘64 e ’65. Dello stesso periodo la conquista di ambìti riconoscimenti, in occasione delle annuali rassegne del “Paesaggio monrealese”. Dal 1966 il naturale divenire della ricerca lo portò a puntare sul dettaglio e sul segno: dalla juta ricavava quadratini e da essi piccoli cerchi che tagliava in due parti, per poi riaccostarle incollandole sulla tela. Così come i residui esterni ai quali, magari a margine, non negava il nobile utilizzo.
Nello stesso periodo i segni, a volte, scaturivano dai profondi tagli, che sembravano voler distruggere l’opera appena compiuta.
In quegli anni, per esigenze connesse all’insegnamento nell’istruzione artistica, si trasferì a Sciacca dove entrò a far parte del gruppo degli artisti emergenti e politicamente impegnati, come testimonia la preziosa nota di Leonardo Sciascia del 1968, scritta per il catalogo della mostra “Giovani pittori di Sciacca”, che in parte trascrivo: […] “È una mostra, insomma, che si costituisce al di qua del giudizio: una rassegna non competitiva dei giovani pittori saccensi più o meno dotati, più o meno ricchi di esperienza, ma certamente tutti di buona fede nel loro lavoro, carichi di fervore e di passione. Perché non bisogna dimenticare che siamo in una delle zone più depresse d’Italia, delle più “difficili” socialmente, politicamente, umanamente; e quasi dentro quella Valle del Belice in cui migliaia di persone vivono, ormai da un anno, in condizioni indegne di un popolo che si dice civile, di uno Stato che si dice democratico.”
Nella nuova città di residenza, ricca di fermenti culturali e patria della ceramica d’arte, Nacci trovò il definitivo connotarsi del proprio linguaggio espressivo. La sabbia del litorale saccense era divenuta materia prima per i suoi attraenti impasti cromatici. La pittura assumeva lo spessore necessario per accogliere fantastici ed essenziali graffiti: figure umane, donne a quattro gambe, barche, case, volatili, scarafaggi, cavalieri su destrieri allungati come lombrichi, pesci, lucertole filiformi, etc. Una sorta di scrittura ideografica inventata da Antonino Nacci alla maniera dei popoli più antichi o, forse, ritrovata (a frammenti) tra i granelli di quella sabbia resa umida dalle acque che bagnano tutti i Paesi del Mediterraneo.
Con quel singolare alfabeto, più o meno arricchito da funzionali inserti geometrici, e con il variare cromatico degli impasti (dettato dal modo di avvertire le circostanze) Antonino Nacci ha “scritto” le sue singolari visioni, fino alle ultime, quelle che raccontano la percezione dell’approssimarsi del tramonto.
Un corso abilitante relativo alla comune materia d’insegnamento, svoltosi nei primi anni ’70, ci offrì occasioni per frequenti incontri: durante il lavoro di gruppo si parlava di didattica delle discipline geometriche all’epoca del “Bauhaus”, nei momenti di pausa mi aggiornava sul suo lavoro d’artista e su certe esperienze da marinaio, nato alle falde del Monte Caputo.
Ero presente, nel marzo 2012, all’inaugurazione della splendida mostra “Antonino Nacci – Antologica di opere dal 1962 al 1989”, tenutasi a Palermo a Palazzo Sant’Elia per volere della Regione Sicilia, della Provincia di Palermo, del Comune di Sciacca e, anche, del Comune di Monreale. Di quell’evento rimane il ricco e prestigioso catalogo curato da Nicolò D’Alessandro, nel quale così si conclude la nota biografica redatta dal figlio dell’artista, Andrea: “Il racconto, ahimè, volge al termine. Ci rimane da porci una domanda che purtroppo non troverà risposta: cosa sarebbe stato dopo? Antonino Nacci muore a Sciacca nel luglio del 1989. Aveva cinquant’anni.”
L’avvocato Filippo Di Matteo, allora Sindaco di Monreale, durante l’intervento inaugurale assumeva l’impegno di adoperarsi affinché la stessa mostra fosse trasferita nella nostra Città. Quel ciclo amministrativo si è concluso e l’impegno è purtroppo svanito: mi rivolgo da qui, ancora una volta, alla nuova Amministrazione per chiedere che quel progetto sia al più presto realizzato. Ha ragione Andrea, non sapremo mai “cosa sarebbe stato dopo”; anche i suoi concittadini, però, reclamano il diritto di conoscere lo straordinario racconto che Antonino Nacci aveva scritto prima, fino all’estate del 1989 .
Sergio Mammina
ARTISTI di SICILIA destinatari di (involontari) sgarbi, ilmiolibro, 2016